Sacerdote e media

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Autore: Pierre Babin
Quando i preti, o più in generale gli operatori pastorali, si iscrivono a un corso di comunicazione chiedono di imparare a utilizzare gli audiovisivi per trasmettere il messaggio di Cristo, per rendere il loro ministero più efficace e attraente. Cosa comporta una tale richiesta? Possiamo riassumerla in questo modo: abbiamo un messaggio da trasmettere e vogliamo usare l’audiovisivo per farlo in maniera penetrante, piacevole ed efficace. Decisamente un modo di ragionare che, per quanto non falso, è certo riduttivo, insufficiente, per non dire inaccettabile nell’azione pastorale. Infatti tende a identificare il messaggio con la sua formulazione dottrinale.
Quando i preti di oggi parlano di messaggio, essi intendono in genere un insieme di verità, dogmi e leggi morali di cui sono i depositari per funzione e formazione. Il messaggio non è altro che pensiero che va verso il pensiero; è contenuto intellettuale; è la Verità contenuta nel dogma, nel catechismo. Esso viene così ridotto al suo solo aspetto intellettuale. Un tale modo di vedere può facilmente spiegarsi con dieci anni di formazione scolastica e teologica.
Questa riduzione non viene mai chiaramente espressa, eppure è alla base dell’azione pastorale: il compito principale del prete è di trasmettere la fede sotto forma di predicazione e di catechismo, appoggiandosi soprattutto sulla teologia, sul testo della Bibbia scritta, su dogmi chiaramente formulati. Senza dubbio, egli è anche l’uomo dei sacramenti: ma non è forse vero che questo aspetto occupa una posizione secondaria? Non dimentichiamoci che l’obbligo della messa domenicale si traduce per il fedele nel dovere di ascoltare l’ omelia, che a sua volta deve essere una spiegazione sistematica del Catechismo della Chiesa cattolica.
Il primo torchio per stampare fu portato in Asia dal domenicano Thomas Pinpin nel 1593, che aveva come obiettivo la stampa della doctrina christiana. Nei seminari fondati dopo il Concilio di Trento si imparava prima di tutto a scrivere: il prete, come istitutore, è uomo del libro; sacramenti e battesimi sono celebrati ricorrendo più alla parola che ai gesti. Solo con la rivoluzione mediatica ci siamo liberati di questa confusione e ci siamo aperti a una maniera diversa di vedere le cose. Il messaggio non può ridursi al suo contenuto intellettuale. Più che parole, il messaggio è prima di tutto l’effetto prodotto da un corpo su un altro corpo. Più che trasmissione di dottrine, la comunicazione della fede è l’interazione di due corpi che entrano in contatto. I discepoli mangiano e bevono con il maestro, ascoltano la sua voce, mangiano la sua carne e bevono il suo sangue. Nel Vangelo comunicare non significa comprendere intellettualmente un discorso, ma seguire Gesù e diventare ‘uno’ con lui.
Dopo anni di formazione intellettuale, i media dicono al prete: "Quello che hai imparato in seminario non è che una piccola parte del messaggio. L’essenziale non sta in ciò che dici ma in ciò che sei. I media non fanno altro che amplificare quello che sei."
Affermare che si vogliono usare i mezzi audiovisivi per trasmettere il messaggio è non solo capzioso ma anche anacronistico. L’idea che i media siano solo dei mezzi è ormai del tutto datata. Se tra gli anni Sessanta e Ottanta i media venivano considerati come semplici strumenti, oggi sono visti come una vera e propria cultura, un sistema di funzionamento della società, un ordine etico, un modo di vivere.
La gente non vede più come una volta; non impara più come una volta; non prega più come una volta; non compra più come una volta; non ama più come una volta; e i capi non comandano più come una volta!

1. Due testi di base

Resa pubblica il 7 dicembre 1990, l’Enciclica Redemptoris Missio parla di una ‘nuova cultura’. La sua posizione è chiara: "Non basta usare i media per assicurare la diffusione del messaggio cristiano e il magistero della Chiesa (Chiesa e comunicazione). È necessario anche integrare questo messaggio nella ‘nuova cultura’ creata dai moderni mezzi di comunicazione" (n. 37). Anche l’Istruzione pastorale Aetatis Novae scrive che "la Chiesa deve sempre comunicare nel modo più conveniente a ciascuna epoca e alle culture particolari delle nazioni e dei popoli, per cui oggi essa deve comunicare nella e per la ‘cultura dei media’"(n. 8). Queste sono parole al tempo stesso audaci ed equilibrate: non condannano chi usa i media; non condannano i corsi di formazione dove si impara a utilizzarli; questi strumenti sono utili, in certi casi necessari, ma ora bisogna saper andare oltre. Dopo il periodo dell’uso, e per alcuni del disprezzo e del rigetto, è arrivato il momento che i preti acquisiscano più profondamente la cultura e il linguaggio dei media. Non si tratta di rifiutare la teologia rigorosa: essa è più che mai necessaria in un’epoca di confusione di idee come la nostra. Si tratta piuttosto di chiedere ai preti delle nostre parrocchie quello che un tempo si chiedeva ai missionari: imparare una nuova lingua, un nuovo modo di pregare, di predicare, di catechizzare, di celebrare la liturgia. Usare i mezzi audiovisivi nella catechesi va bene, ma non è sufficiente. Il biblista Tom Boomershine (1994), riferendosi a un video sui miracoli, ha proposto un termine efficace, anche se un po’ barbaro: non si tratta di tradurre la Bibbia in audiovisivo, ma di ‘transmediatizzarla’, cioè di trasporla nella cultura del villaggio globale e dell’economia di mercato.

2. Il prete-medium

Nella cultura dei media, a partire da quale base il prete deve affrontare il suo ruolo e il suo ministero? Dalla stessa cultura dei media: la comunicazione e la comunicazione attraverso il medium. Se un prete vuole comunicare la fede nella cultura dei media, egli dovrà articolare la sua teologia sulla nozione di medium: il Cristo-medium. Pertanto svilupperà la sua azione pastorale amplificando il suo carattere di medium. Il prete è il medium che si riveste dei media. Estende il suo corpo con i media. Dà al Cristo un’Incarnazione mediatica. Si potrebbe parafrasare dicendo: "Cercate di essere medium e i media vi saranno dati in più" (cfr. Matteo 6,33).
Nel suo Corso di mediologia generale, facendo eco alla celebre formula "il medium è il messaggio", R. Debray (1991) scrive: "Il nostro grande ispiratore non è McLuhan ma san Giovanni... la mediologia non è che una cristologia dell’ultima ora". La frase "il Verbo si è fatto carne" può perfettamente diventare "il Verbo si è fatto medium". A condizione, però, di intendere la parola medium nel suo senso più pieno, cioè non come semplice canale di trasmissione ma come corpo intermediario, realtà che trova consistenza nell’essere tra due cose, che partecipa di due estremi, che è via di mezzo. Il medium non è un tubo, ma un ‘corpo composito’ di cui i media non sono che un alone.
Il prete è il medium della sua gente non solo a livello sacramentale, ma anche a livello umano, psicologico e mediatico. La domanda, allora, è la seguente: come può il prete-medium ‘allargarsi’ tramite i media? Come può sviluppare la sua opera di mediazione?
Due sono gli aspetti su cui insistere: il prete-medium è chiamato a realizzare una mediatizzazione tecnica; il prete è chiamato a integrare la ‘la nuova cultura’ creata dai media.

3. La mediatizzazione tecnica

Il Cristo si è incarnato nell’epoca della scrittura, primo grande strumento di mediatizzazione. In seguito, il Cristianesimo si è sviluppato ed è profondamente cambiato con l’invenzione della stampa (seminari, catechismo). Oggi dobbiamo evangelizzare attraverso la mediatizzazione elettronica. Questa mediatizzazione è caratterizzata da due direzioni essenziali: una più informativa e verbale (telefono, fax, computer, ecc.) e una più spettacolare ed emozionante (video, radio, televisione, cinema, ecc.).
I due ultimi ritrovati della mediatizzazione elettronica sono Internet e la realtà virtuale. Internet tesse la trama del villaggio globale del mondo: molti giovani hanno il netto presentimento di trovarsi all’alba di un nuovo tipo di civiltà dove la comunicazione senza frontiere sostituirà il consumo senza misure. Quanto alla realtà virtuale, essa non è che agli inizi. Secondo D. De Kerckhove (1995), la realtà virtuale sarà per la civiltà elettronica ciò che l’automobile è stata per la civiltà industriale: il suo simbolo e la sua sommità.
Il Concilio di Trento aveva istituito i seminari nei quali l’apprendimento della scrittura era considerato una base necessaria: si chiederà ai preti di imparare a usare gli strumenti elettronici? Uno dei fondatori del grande centro televisivo di Kuangchi a Taipei, il gesuita R. Parent, ci ha dato questa indicazione fondamentale sulla formazione ai media: "È importante che tutti vengano introdotti agli strumenti di base della comunicazione mediatica: fotografia, suono, video, montaggio, computer. In questa fase, non è necessario diventare dei professionisti, ma solo acquisire una visione generale del sistema dei media e della sua filosofia. Successivamente, ci si dovrà appropriare più seriamente di una o due tecniche al fine di approfondire, a partire da un punto preciso, le leggi che regolano il linguaggio audiovisivo. Queste leggi sono le stesse per tutte le tecniche: pertanto chi padroneggia la fotografia o il montaggio, sarà anche in grado di comporre una pagina web; a differenza del linguaggio letterario, egli saprà comporre visivamente ed emozionare".

4. Integrare la nuova cultura

Il termine ‘nuova cultura’ usato dalla Redemptoris Missio è stato contestato. "Si deve parlare di cultura o di anti-cultura?" hanno lamentato alcuni. In realtà, il termine cultura va inteso in senso sociologico come insieme dei mezzi e delle forme che un dato gruppo umano mette in opera per risolvere i problemi di senso e di esistenza. Esistono in questo senso tante culture quanti sono i gruppi umani. Inoltre, integrare la cultura mediatica non significa che la si debba digerire passivamente: integrare significa ricevere e reagire; significa vivere in quest’epoca lunga e difficile durante la quale i nostri circuiti nervosi si modificano, i muscoli si riadattano, il sangue fabbrica nuovi anticorpi, lo spirito di volta in volta assorbe e rigetta.
Come viene condizionato il ministero evangelico e sacerdotale tradizionale dalla nuova cultura? Principalmente in quattro modi:
– la nuova cultura rompe le barriere culturali e geografiche a vantaggio di una globalizzazione (o mondializzazione);
– la nuova cultura dà valore all’emozione, all’affettività e all’immaginazione;
– la nuova cultura ci indirizza verso il pubblico piuttosto che verso una verità oggettiva;
– la nuova cultura promuove una leadership ‘carismatica’ e simbolica piuttosto che un’autorità formale e centralizzata.
È chiaro che non si tratta di copiare la cultura. Tuttavia, il nuovo ambiente culturale ci porta a privilegiare certe forme della funzione sacerdotale:
prete (= medium) dell’universale;
prete (= medium) dell’emozione umana;
prete (= medium) del feedback;
prete (= medium simbolico) leader simbolico.
Ovviamente, non possiamo ridurre il prete a queste caratteristiche soltanto. Il prete è anche uomo di altre culture, a cominciare da quella scritta: a questo proposito, egli deve saper essere ‘dottore’ della Chiesa e darsi dei punti di riferimento ben precisi. Si tratta di privilegiare certe forme, peraltro antiche e già presenti nel Vangelo, in funzione della cultura di quest’epoca, quella dei media.

4.1. Prete dell’universale.
La caratteristica più importante di questa nuova cultura è la sua globalizzazione, la sua diffusione mondiale. Il mondo – si dice – diventa un villaggio globale. Questo non vuol dire che ricchi e poveri saranno uguali, che la gente si parlerà senza problemi e che le informazioni viaggeranno liberamente: niente si muove senza che tutto si muova. È una mondializzazione degli effetti, generata da tecnologie senza frontiere. E questa è precisamente la missione della Chiesa: fare del villaggio globale un villaggio globale di comunione nel senso biblico. Sta qui la sfida maggiore lanciata dai media: le nuove tecnologie attraversano i muri e rompono le frontiere. Ma non tutti sono pronti a pensare e a vivere aldilà della nazione e della cultura tradizionali. Da una parte, oggi disponiamo della più grande possibilità di costruire l’unità del genere umano a partire da una nuova configurazione mondiale, dall’altra corriamo il pericolo di barricare la nostra identità dentro formule sorpassate.

4.2. La parrocchia e il ministero parrocchiale.
Se il prete riesce a cogliere questa situazione storica come fatto centrale del nostro tempo, non deve anche rendersi consapevole di lavorare verso una direzione che sopprime le frontiere tra ‘ebrei e greci, schiavi e uomini liberi’, in breve non deve diventare un agente dell’universale? Non è egli chiamato a creare un nuovo tipo di parrocchia, una sorta di microcosmo del villaggio globale?
Possiamo individuare tre caratteristiche principali che la parrocchia del tempo della mondializzazione deve possedere:
a) la parrocchia come centro di amicizia;
b) la parrocchia come segno dell’universale;
c) la parrocchia come centro di risveglio spirituale.
a) La parrocchia come centro di amicizia. La parrocchia è stata per secoli costruita attorno a una chiesa fatta di pietre, in funzione dei mezzi di locomozione a disposizione delle persone che la frequentavano. Le comunicazioni elettroniche non sopprimono certo questa chiesa locale, geografica e sociale, ma giustappongono alle relazioni di vicinato delle relazioni di affinità e di interesse comune. In questo senso, la comunità dei cuori è più importante della comunità territoriale. Dalle comunità a base geografica si va verso le comunità a base elettronica. Costruite sul riconoscimento di certe affinità spirituali e bisogni complementari, queste comunità toccano la parte più intima dell’essere. Esse esprimono al meglio l’essenza della comunità cristiana: il riconoscimento reciproco delle vocazioni, la conferma di ciascuno nella sua missione, la comunione ispirata dal Vangelo, l’interesse per l’amore reciproco.
Senza arrivare a parlare di sette, come non notare la crescita delle famiglie spirituali, dei gruppi carismatici, delle comunità legate a un qualche guru? Certo la parrocchia elettronica non può ridursi a questi gruppi spirituali, ma deve promuoverli e integrarli. Nella pastorale si dovrebbe dedicare alla promozione e all’educazione di questi gruppi il tempo e l’importanza che una volta si dava al catechismo e ai movimenti.
b) La parrocchia come segno dell’universale. Agli occhi di tutti la parrocchia rappresenta innanzitutto un’incarnazione locale della grande Chiesa, e un centro di solidarietà basato sulla prossimità. Nell’era della delocalizzazione, la parrocchia dovrebbe però acquisire un’altra immagine, quella dell’universale nel locale. Gruppo alternativo, chiamato a stimolare la società tutta, la parrocchia dovrebbe diventare l’avanguardia, il ‘portabandiera’ dell’unità del mondo, della comunità umana senza frontiere.
E se ci sono dei conservatori? Tanto meglio, essi avranno il ruolo di mantenere il realismo e la coerenza. Fondamentalmente, la visione biblica ci conduce alla riconciliazione di tutti, all’unità della razza umana.
Non è solo un sogno immaginare delle parrocchie che, avendo compreso le possibilità offerte dalle nuove tecnologie e dal ciberspazio, lavorino attivamente verso una civiltà della comunicazione universale: azioni di dialogo, riduzione del divario tra ricchi e poveri, viaggi senza frontiere, accesso degli esclusi e degli anziani allo scambio dei beni, ecc.
c) La parrocchia come centro di risveglio spirituale. Il più grande pericolo della cultura dei media è di perdere la sua anima nel flusso delle pubblicità, delle informazioni e delle emozioni. Luogo di culto, di catechesi e di azione sociale, la parrocchia deve anche rappresentare un centro spirituale: non soltanto centro di risorse, ma anche centro di risveglio. Giovani in cerca di avvenire, anziani che non sanno più dare un senso alla vita, adulti che hanno perduto le loro radici, è essenziale che il prete sappia rispondere a una nuova ricerca di interiorità.
Non si può più relegare il risveglio spirituale alle case di ritiro. Non si può più lasciare la cura dello spirituale a un qualche illuminato esponente dello Spirito Santo. Il risveglio dell’interiorità, la formazione della vita spirituale, culminante nella carità, dovrebbe essere una preoccupazione costante dei preti. Perché i media risvegliano l’ansia religiosa, l’anelito verso lo spirituale rinasce e il radicamento nello Spirito appare come l’unica soluzione nel caos mediatico. C’è dunque un senso di rinascimento e di bisogno: che i computer, con le loro attrazioni interattive, non ci facciano dimenticare l’essenziale, e cioè la comunicazione reciproca dei cuori grazie al risveglio spirituale.
Il presentatore alla radio ogni giorno accompagna i suoi ascoltatori con notizie, canzoni, informazioni, storie: questo stimolo quotidiano superficiale, il prete della parrocchia dovrà realizzarlo a livello spirituale.

4.3. Prete dell’emozione.
Qual è la caratteristica principale di una buona foto? Nella maggior parte dei casi, la risposta è l’emozione. Potremmo applicare questa constatazione al prete: preti, parlate, agite secondo il vostro cuore. Certo, seguite anche la testa, ma innanzitutto seguite l’amore e la sensibilità. Nell’epoca della globalizzazione, una delle più importanti caratteristiche della cultura dei media è la componente emotiva.
Quante chiese parrocchiali sono prive di giovani che non si riconoscono in queste vecchie pietre fredde, in queste formule d’altri tempi, in questi incontri esangui! Salvo che in qualche luogo particolarmente vitale, le giovani generazioni hanno a poco a poco abbandonato la messa domenicale. Esse hanno scoperto altre pratiche cristiane, quelle di Taizé, delle Giornate Mondiali della Gioventù, dei pellegrinaggi, degli incontri di musica e fratellanza. Il silenzio interiore e la testimonianza sostituiscono le assemblee prive di carica simbolica e di atmosfera.
Una delle condizioni per l’ingresso del cristianesimo nel sec. XXI è l’integrazione dei sentimenti, dell’emozione e dell’immaginazione nella vita cristiana e nella cultura. Equilibrare il lato destro e sinistro del cervello, amare il proprio corpo, apprezzare la propria sensibilità, saper vibrare e far vibrare: non si può essere medium della propria gente senza queste qualità. Il linguaggio del cristianesimo, preciso e rigoroso, continua a essere necessario, ma non basta più. Il prete deve essere l’uomo dei punti fermi e della morale, ma – nell’epoca del walkman e della techno – egli dovrà soprattutto essere uomo di cuore, partecipe attivo delle vibrazioni della sua gente.

4.4. Prete del feedback.
È normale che l’omelia della domenica si perpetui senza alcun feedback da parte del pubblico quando la gente è abituata a un continuo feedback sia che si tratti di un programma televisivo, di politica o di un prodotto commerciale?
Grazie alle tecnologie elettroniche che permettono una valutazione statistica immediata dei bisogni del cliente, il modo dominante della comunicazione sta rapidamente cambiando. Ieri il modello principale era quello dell’insegnamento che definiva il vero e il bene; oggi è quello del commercio nel quale ognuno giudica personalmente ciò che è bene per sé. Commerciare, nel senso originale del termine, significa scambiare dei beni a seguito di una contrattazione. Conversare, scambiare, sperimentare, cercare garanzie, negoziare: questo è il mondo della comunicazione promosso dalla società elettronica. Il prete, abituato a predicare dal pulpito, a insegnare magistralmente, è chiamato a un vero e proprio cambiamento di atteggiamento e di pensiero. Certo, la Parola di Dio non si inventa, ma questa Parola è essenzialmente alleanza. Nell’era dell’interattività, la Parola di Dio sarà proposta e ricevuta nell’interazione.
Affinché il feedback sia in rapporto con la sua vocazione sacerdotale, il prete non deve semplicemente saper organizzare un gioco sapendo le domande e le risposte, ma deve innanzitutto saper andare a fondo nel cuore umano per scoprirvi "i gemiti ineffabili dello spirito"(S. Paolo, Lettera ai Romani 8,26). Una permanente meditazione – una sorta di ruminazione – si impone a questo punto. È a questa condizione che il prete riuscirà a cristianizzare il feedback e a farne il suo ministero nell’epoca dei media: ministero della ‘retroazione’ tra i richiami dello spirito, più o meno coscienti nella gente, e l’organizzazione delle risposte.

4.5. Prete, medium simbolico.
La cultura elettronica ha bisogno di personaggi carismatici – Giovanni Paolo II, Roger Schutz di Taizé, Désmond Tutu – di luoghi e di gesti simbolici come Compostella, Roma, Taizé, ecc. I sociologi si sono spesso occupati dell’importanza del leader simbolico come chiave di volta della società mediatica. Irvine Schiffer (1973) ha individuato sette componenti fondamentali nella personalità di un leader carismatico: nell’epoca dell’immagine e delle emozioni, ciò che crea un gruppo e lo rende unito non va cercato nel programma politico o nella dottrina, ma nell’incarnazione di una grande immagine. De Gaulle, Thatcher, Nasser, Khomeini: tutti questi leader carismatici hanno in comune il fatto che essi esprimono le aspettative inconsapevoli del loro popolo. Nell’era dell’audiovisivo, essi sono l’immagine e il suono in esatta corrispondenza con la parte più intima del popolo. Quest’epoca ha bisogno di immagini simboliche di Cristo, di persone diverse che non ripetono delle formule ma che parlano dal profondo del loro essere e della loro visione. Ci si aspetta che il prete non sia soltanto uomo di Chiesa, ma anche uomo di Dio.
Che i preti ridivengano uomini dello Spirito e dei carismi; che facciano toccare lo Spirito, l’impensabile e il cuore; che non si lascino dominare dalla burocrazia e dall’aspetto formale di Internet. Per quanto è possibile, essi oggi dovranno privilegiare il lato carismatico del loro essere preti, dovranno permettere alla loro creatività di svilupparsi. È il carisma che dovrebbe guidare nella scelta delle tecniche o dei media nei quali investire. I media possono essere molto cristiani quando parlano a partire da un carisma, da una necessità interiore.

5. La priorità della formazione

Possiamo distinguere due aspetti fondamentali nella formazione mediatica dei preti (cfr. Congregazione per l’educazione cattolica, Orientamenti per la formazione dei futuri sacerdoti circa gli strumenti della comunicazione sociale, Roma, 1986).
a) Una formazione più intellettuale da effettuare nei seminari: studio regolare dei grandi film al fine di riconoscere le linee simboliche contemporanee – le tipologie di eroi, le maggiori sensibilità spirituali, la maniera secolarizzata di incarnare i grandi temi religiosi come la Redenzione, il Paradiso, il Vangelo, ecc. Allo scopo di formare l’occhio e di aprire alla filosofia delle comunicazioni, sarebbe anche auspicabile proporre una storia dell’arte cristiana e delle tecnologie della comunicazione.
b) E la formazione all’arte di vivere nella nuova cultura? È questa un’iniziazione essenziale in quanto fa percepire dal di dentro il genio e i pericoli di questa cultura. Quando si è realizzato un video con serietà, non si parla più dei media nello stesso modo. Il seminario deve rimanere luogo di formazione intellettuale e non può essere lo spazio ideale per una formazione alla ‘nuova cultura’? Si può imparare l’inglese sui libri, ma quanto all’American way of life, questo lo si imparerà solo calandosi nella vita reale del Paese. Lo stesso avviene con la cultura dei media: essa richiede un certo tipo di programma e di esperienze, una vita di équipe, un contatto con i professionisti, una conoscenza tecnica, tutte cose che presuppongono un ‘paese diverso’ dal seminario tradizionale.

Bibliografia

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Note

Come citare questa voce
Babin Pierre , Sacerdote e media, in Franco LEVER - Pier Cesare RIVOLTELLA - Adriano ZANACCHI (edd.), La comunicazione. Dizionario di scienze e tecniche, www.lacomunicazione.it (29/03/2024).
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