Cultura

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1. Concetto di c.

Questo termine, pur proponendosi sempre di specificare il ‘regno delle attività umane’ rapportato (se non contrapposto) al ‘regno della natura’, viene adoperato per indicare fondamentalmente due realtà distinte ma non disgiunte. In un primo senso, classico-tradizionale, c. designa l’attività con cui l’uomo colit se ipsum (coltiva se stesso) per sviluppare le proprie capacità specificamente umane, a forte componente spiritualistica, ‘umanistica’. Del fenomeno culturale viene privilegiato il processo di educazione o formazione, intesa come erudizione, come patrimonio di cognizioni e di esperienze acquistate prevalentemente tramite lo studio. In un secondo senso, antropologico-moderno, normalmente oggi usato nelle varie scienze dell’uomo, c. indica il complesso delle manifestazioni della vita materiale, sociale e spirituale di una comunità, ossia l’insieme dei prodotti e dei valori umani, i quali caratterizzano i costumi e le forme del vivere di un popolo. Viene quasi a identificarsi con ‘ordine sociale globale’ che, in una certa misura, s’impone all’individuo come formazione collettiva e anonima.
Integrando e superando il livello fenomenologico/sociologico, si arriva a un concetto filosofico di c. che indica che cosa sia in se stessa e quali ne siano gli elementi fondamentali. Dall’intelligenza umana, la c. è percepita come l’insieme dei modi di vita, inscindibilmente espressi sia negli orientamenti speculativi sia nei comportamenti pratici, che sono creati, appresi e trasmessi da una generazione all’altra fra i membri di una particolare società; modi di vita che sono indispensabili ai singoli e alla comunità, in un ineludibile reciproco condizionamento, per concretizzare uno dei modi possibili della natura umana; e che, per la loro finalità ai valori universali di perfezionamento della persona umana, esigono di aprirsi a un arricchente confronto con le altre c.

2. Elementi costitutivi fondamentali

Gli elementi costitutivi di una c. si specificano logicamente e si fondano ontologicamente – tenuto presente che la c. è tutta opera dell’uomo – partendo dalla classica distinzione dell’azione umana. 1) ‘Conoscere-comunicare’: è l’azione mediante la quale l’uomo tende a rendersi consapevole della realtà (soggettiva e oggettiva) in un indispensabile contesto di rapporti dialettici sociali. Lo strumento principale del comunicare e, ancor prima, la legge dello stesso conoscere è la lingua. 2) ‘Fare’ (poiein): è l’azione umana che ha per fine principale quello di produrre, di dominare e di organizzare una materia esteriore; è il dominio della tecnica, che ha il suo scopo e il suo valore nell’efficacia. 3) ‘Agire’ (prassein): è l’azione umana che mira a formare colui che agisce, a modellarne il comportamento in un contesto di forme del vivere comune, socialmente integrate, che vengono concretizzate nelle norme sociali. 4) ‘Contemplare, riflettere’: è l’attività umana che indaga sui valori per tendere all’autenticità della vita e arricchire il regno dell’umanità.
Tutti questi fattori o fondamenti essenziali della c. – lingua, tecnica, norme sociali, valori – sono strettamente correlati tra loro e costituiscono una ‘struttura’, intesa nel senso di un tutto organico formato di elementi solidali, tali che ognuno dipende dagli altri e non può quindi essere comprensibile se non attraverso la reciproca relazione dell’uno con tutti gli altri. È allora necessario evidenziare che la c., nella moderna accezione, "non è un settore, ma una funzione globale della vita della persona. Per un essere che si forma, e che si forma sviluppandosi, tutto è cultura: il funzionamento di un’officina, la formazione del corpo, il sostenere una conversazione o lo sfruttamento di un terreno. Ciò significa che non esiste una cultura davanti alla quale ogni altra attività sarebbe incolta, ma esistono tante culture diverse quante sono le attività (dell’uomo): e bisogna ricordare questo fatto alla nostra cultura libresca" (Mounier, 1974). Come bisognerà pure sottolineare che non sarà facile, oggi, individuare e qualificare una disciplina o un’attività che sia ancilla di altre nella formazione culturale della persona umana: tutte rivendicano la loro importanza e indispensabilità.

3. Lingua e c.

Senza una lingua non avremmo c. e l’uomo si troverebbe in una situazione di poco migliore di quella degli animali. Pertanto la lingua è sempre stata e rimane la prima chiave di lettura e d’interpretazione di ogni c., perché è "la casa dell’essere" (Heidegger). L’uomo con la lingua definisce i quadri base della sua esperienza per caricarla in prima persona del significato della realtà: ne fa lo strumento per inserire i membri del suo gruppo in una determinata ‘visione del mondo’.
La lingua quindi è formativa non meno che formata. Non bisogna, certo, spingere agli estremi questa tesi, tanto da ritenere che l’uomo possa pensare solo ciò che può dire o possa agire efficacemente solo su ciò di cui sa parlare. Tuttavia chi è incapace di esprimersi e, per fare valere i propri diritti, deve sempre dipendere dagli altri, dai ‘porta-parola’, da coloro che ‘sanno parlare’, deve sempre essere ‘interpretato’ o ‘tradotto’ e difficilmente sarà protagonista nelle assemblee democratiche dove si progetta e si decide.
Ma se la lingua è l’elemento fondamentale e primario di ogni c., in quanto è il mezzo precipuo della comunicazione verbale del simbolo, non è l’unico e nemmeno sempre il più efficace nello sviluppo della vita privata e sociale dell’uomo. Va pure dato il giusto rilievo ad altre forme comunicative, dove la capacità simbolizzatrice può espletarsi con maggiore creatività e forza avvincente e persuasiva. L’ arte è un fenomeno culturale di enorme importanza, in quanto coinvolge l’individuo e la collettività, sia come fonte di ispirazione e rappresentazione dei valori, sia come stimolo e finalità nell’agire.

4. Tecnica e c.

La scienza, con le sue inimmaginabili applicazioni tecniche, è un elemento essenziale di una c., non solo per la sua palese efficacia applicativa e produttiva, bensì anche perché rivela un carattere sintomatico del modello di valori dominanti in una società e diventa una delle cause e manifestazioni più immediatamente rivelatrici delle differenziazioni epocali. "Gli storici hanno sovente usato e abusato del termine rivoluzione per significare un mutamento radicale – scrive C. M. Cipolla – ma nessuna rivoluzione è stata così drammaticamente rivoluzionaria come la Rivoluzione Industriale, salvo forse la Rivoluzione Neolitica" (Barone-Ricossa, 1974).
La dispotica pretesa della scienza di occupare tutti i settori della vita umana e la concomitante superefficienza tecnico-produttiva sorreggono una colossale struttura di potere e di sapere, specialmente da quando (fine XIX secolo) è divenuto fondamentale e organico il rapporto tra scienza, tecnologia e industria, e da quando (inizio del XX secolo) si è fatto decisivo per il prestigio e l’autorità di uno Stato l’interesse per l’utilità pratica della scienza e quindi l’appoggio alla ricerca industriale. Si assiste così, tra l’altro, alla crescente importanza dello scienziato, come studioso, come esperto e come ‘creatore di potere’, e alla crescente interdipendenza della scienza con il potere economico e politico, in un contesto internazionale di competitività globale (Globalizzazione).
Se il progresso tecnico-scientifico è pienamente auspicabile allorché diventa a sua volta elemento, strumento e coefficiente del progresso della persona umana, è possibile però individuare (teoricamente e storicamente) anche un progresso tecnico-scientifico che si accompagna a un regresso o morale o politico o sociale, in quanto – come sottolinea Romano Guardini (1984) – può essere sviluppato da un "uomo-non-umano" e creare quindi una "cultura-non-culturale", non automaticamente attenta ai valori della persona. L’egemonia della tecnica sul mondo, con la sua fondata attesa del progressivo sviluppo di ciò che è già stato raggiunto per arrivare al superamento di ciò che ancora non è riuscita a padroneggiare, tende a vanificare l’inestirpabile ricerca del senso direttamente personale del dolore e della gioia, della vita e della morte, dell’amore e del sacrificio, ecc. Non sarà allora sufficiente porre sotto controllo l’intera tecnica stessa per salvare l’uomo e quindi dominare ancora in modalità tecnica. La vera minaccia contro l’esistenza umana non proviene dal pericolo che i mezzi tecnici moderni si ‘sollevino in rivolta’ contro il produttore (vi si potrebbe ovviare, almeno in linea di principio, nella modalità tecnica stessa). Il vero pericolo sta piuttosto nel fatto che mentre la tecnica moderna apre grandi possibilità a un accrescimento di vita, contemporaneamente impedisce questa realizzazione, poiché tutto viene subordinato e finalizzato al mondo di vita tecnico.

5. Norme sociali e c.

Parlando di norme sociali che reggono i rapporti tra i membri di un popolo, non intendiamo riferirci a singole usanze o atteggiamenti individuali, che ben poco contano per caratterizzare e differenziare una c.; ci riferiamo invece alle forme del vivere comune socialmente integrate. Esse indicano ciò che è stato trasmesso, stabilito, assorbito dal sistema di vita e che, divenuto modello, impegna ogni singolo membro di una società, e la società stessa, al rispetto e all’osservanza. E così costituiscono un elemento centrale della socializzazione.
Dall’esigenza di ogni uomo di appartenere a una comunità per sentirsi guidato, protetto e sostenuto nell’affrontare i problemi della vita, proviene l’universalità delle norme sociali; dal modo diverso con cui le comunità interpretano e rispondono a tali problemi, deriva la loro peculiarità, la quale in definitiva diviene la rivelatrice più appariscente e più genuina della Weltanschauung di un popolo.
Un ponderato atteggiamento critico di fronte alle norme sociali esige innanzitutto di saperle distinguere, con una classificazione sociologica (americana) ormai divenuta comune (Bartoli, 1987), in:
a) folkways (usanze della gente, consuetudini, abitudini), quei modi di agire comune di una società o di gruppi, tramandati da una generazione all’altra senza speciale riflessione o procedura, seguiti più o meno inconsciamente (modi di vestire, di mangiare, di divertirsi, ecc.). Nella maggior parte non costituiscono un vero obbligo morale per il gruppo, il quale però al momento opportuno ne esige l’osservanza;
b) mores (costumi): quei modi di agire considerati molto più precisamente come giusti e appropriati ed essenziali al bene sociale (p. es., fedeltà coniugale, condotta sessuale, diritto di proprietà, rispetto della vita altrui, ecc.). Se violati sono puniti assai più severamente, perché la loro violazione, a differenza di quello dei folkways, è considerata un pericolo per i diritti degli altri;
c) leggi: se nelle società primitive folkways e mores sono elementi sufficienti di controllo sociale, nelle società più complesse l’ opinione pubblica e la coscienza degli individui non possono da sole assicurare l’ordine sociale, ma è necessaria una certa organizzazione politica per mantenere tale ordine con la promulgazione anche di apposite leggi.
Nelle c., così come si esplicano nelle varie concretezze storiche, alcune norme sociali sogliono cristallizzarsi in ordinamenti o forme istituzionali che fanno funzionare determinati poteri, vere ‘strutture portanti’ di una società, quasi alvei che la viva corrente della c. ha formato con il suo secolare defluire. Tra questi vincoli culturali, l’istituzione politica e l’istituzione educativa sono ritenuti i più determinanti e decisivi nella trasmissione e nella compattezza del tessuto di una società.

6. Valori e c.

Oltre alla coscienza di esistere, l’uomo si trova di fronte a delle esigenze, a dei doveri, che sono le proiezioni ideali del come deve essere la sua vita e del come vanno ordinate le cose. È quindi inevitabile che ogni c. si contraddistingua per specifici apprezzamenti su particolari azioni, le quali permettono d’intendere e di vivere l’esperienza quotidiana nel suo significato più profondo. Queste convinzioni rivestono una straordinaria importanza per il gruppo sociale, tanto da venire assunte come criteri di giudizio, norme di condotta e modelli di educazione. In effetti se nell’organizzare la propria vita, nelle sue varie manifestazioni, gli uomini sono condizionati da fattori di natura materiale (geofisica e socioeconomica), lo sono assai più dalla "concezione che gli uomini stessi hanno dell’uomo, della sua origine e del suo fine, del suo rapporto con la natura. In altre parole: è un’antropologia che sempre si ritrova all’origine di una cultura e che la determina nei suoi elementi fondamentali" (Lazzati, 1976). E ammettere la predominante influenza che i valori assumono nel compaginare un popolo vuol dire riconoscere che, tutto sommato, c’è una c. distinta e omogenea allorquando un gruppo sociale ha in comune lo stesso ideale di vita, le stesse convinzioni sul fine essenziale dell’uomo e sui mezzi per raggiungerlo.
Le c. snodatesi nei secoli si qualificano non solo per la preminenza accordata ad alcuni valori, ma anche per il modo della tradizione (trasmissione) dei medesimi. Nelle c. contemporanee, più sofisticate, il fenomeno della comunicazione ha raggiunto modalità, potere, intensità tali da influire, assai più che nel passato, sulla consistenza stessa e sulla ‘esemplarità educativa’ dei valori (o dei non-valori) veicolati. Perciò l’uomo che vive nelle società dei mass media ha di fronte a sé una nuova sfida: la necessità di potenziare le capacità di analisi, di giudizio, di scelta, affinché il gigantesco ‘mercato delle notizie’ non monopolizzi il dominio delle idee. Dato che l’informazione, nel suo significato onnicomprensivo, è la materia prima con cui gli uomini fanno e scrivono la loro vicenda nel bene e nel male e può facilmente diventare sistema di pressione sul sistema culturale, occorrerà una vigile attenzione e un serio controllo (democratico) sull’industria delle comunicazioni. Si tratta perciò di superare non solamente la ‘passività d’ascolto’, ma soprattutto di scuotere la ‘passività di controllo’ del momento produttivo dell’informazione. Emmanuel Mounier, già mezzo secolo fa, riteneva che il problema più angoscioso del nostro tempo fosse quello della ricerca e della comunicazione della verità. Anche in questo settore la democrazia (occidentale), che ha esteso sempre più la sua dimensione liberale e persino libertaria, se vuole restare una vera democrazia (sostanziale), deve recuperare gli altri due assi della rivoluzione francese: uguaglianza e fraternità. Solo allora si riuscirà a capire che sono cose ben diverse l’economia di mercato e il ‘capitalismo trionfante’ (mercato senza regole, senza limiti, senza confini etici); la libertà di impresa e di intrapresa (che sono valori) e la glorificazione del liberismo selvaggio; la libertà di stampa e di comunicazione (irrinunciabili conquiste per alimentare responsabilità e democrazia) e la burocrazia telegiornalistica assoldata in difesa di egoismi e di soprusi. Non si tratta quindi di anatemizzare o demonizzare i mass media: per chi li manovra, è questione di lealtà e di giustizia; per chi li ascolta, è questione di educazione a usarli con responsabilità e ‘criticità’. (Educomunicazione; Libertà e comunicazione; Media education; Potere e comunicazione)

7. C. e universalità

L’edificazione del soggetto umano non si attua che nella società, non nel senso che il soggetto coltivato sia un prodotto meccanicistico della società, bensì nel senso che la società, quale comunità di persone, accompagna l’individuo nell’accesso alla sua statura adulta, trasmettendogli l’insieme dei beni, materiali e spirituali, grazie ai quali egli potrà realizzare pienamente la sua natura. In altre parole, la c., compito e realizzazione della persona, è fondamentalmente c. dell’umanità dell’uomo; deve offrire a ogni persona tutte quelle condizioni che le permettano di esprimere il proprio essere nel modo più completo possibile. E proprio perché tende alla piena realizzazione dell’umanità dell’uomo, la c. tende di per sé all’universale; implica cioè, potenzialmente e di fatto, la pluralità delle c.
Storicamente parlando, infatti, non esiste la c., esistono le c. particolari. Ovviamente ‘c. particolare’ significa il luogo concreto della realizzazione della ‘c.’ e al tempo stesso il luogo che circoscrive una realtà sociale prodotta dall’uomo, che porta e palesa i limiti inerenti a tale effettuazione, di modo che nessuna ‘c. particolare’ basterà da sola a tradurre in atto tutte le potenzialità umane. Ogni singola c. è, dunque, una realizzazione limitata (più o meno riuscita) della c.; è uno dei modi possibili (mai esaustivo) di concretizzare la natura umana. Se perciò non si dà c., in concreto, che non comporti ombre e componenti negative (dovute alla limitatezza dell’uomo e alla sua fallibilità) e se parimenti ogni eredità culturale si costituisce nella storia (con tutta la parte giocatavi dal ‘caso’, dalle opportunità e da una sequela di altri elementi accidentali), sarà giocoforza concludere che la pluralità delle c. è un guadagno per l’umanità. Proprio partendo dal fatto e dal diritto che legittimano il pluralismo culturale ci si deve chiedere se e quale rapporto dialettico possa esistere tra l’ineliminabile singolarità delle c. (con relativo rischio di ‘chiudere’ e impoverire lo sviluppo della natura umana) e la convenienza o l’esigenza di confrontarsi coi valori di altre c. (con relativo rischio di ‘relativizzare’ la verità).
Queste considerazioni non vogliono minimamente insinuare l’idea che si debba avallare e giustificare quel relativismo culturale, per cui una cultura assiologicamente considerata ne varrebbe un’altra. Al contrario, riteniamo – con Antonio Nanni – che "il vero problema, a pensarci bene, è come uscire fattivamente dal relativismo culturale senza soffocare la ricchezza delle culture e senza strangolarne le legittime differenze" (Nanni, 1986). È questa la ragione per cui sembra necessario tendere a una nuova mentalità che porti a una compenetrazione interculturale pur rispettando le singole differenze. Oggi "s’impone il passaggio da una cultura sorda a una cultura dell’ascolto e della ricettività, cioè, in altri termini, da una cultura della conquista (la cui vitalità è canalizzata tutta nello sforzo di incarnare sempre di più e sempre meglio il ruolo di cultura madre) a una cultura che, se non dialettica nel confronto con le culture altre, sia perlomeno dialogica, accetti cioè di decentrarsi su un terreno neutrale che non le è proprio, sul quale non è abituata ad accettare di incontrarsi con l’altro" (ivi, 155-156).
Mondialità culturale non significa monocultura, né tanto meno l’occidentalizzazione forzata delle altre c. "L’universalità non è una realtà già costituita e confezionata e non può essere esportata da un continente all’altro come in un container... Non si giunge all’universalità attraverso l’estensione geografica di un solo modello, ma attraverso il confronto e la compenetrazione dei molti modi di vivere e di pensare" (ivi, 170). Sarebbe allora più esatto parlare non di c. planetaria ma di dimensione planetaria delle c., che è lo sforzo di ogni popolo di rispettare e capire le diversità dell’altro. L’autentico pluralismo quindi non è solo accettazione delle differenze, ma è garanzia di dialogo con differenze feconde. Solo la stima reciproca delle identità degli interlocutori permetterà quel dialogo costruttivo che non domina o non dissolve l’alterità (o la diversità) culturale. Solo identità che si coniugano con alterità riusciranno a dare un senso autentico all’universalismo culturale.

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Come citare questa voce
Montani Mario , Cultura, in Franco LEVER - Pier Cesare RIVOLTELLA - Adriano ZANACCHI (edd.), La comunicazione. Dizionario di scienze e tecniche, www.lacomunicazione.it (19/03/2024).
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