Deontologia A. Deontologia della comunicazione

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Autore: Guido Gatti

1. Etica professionale e codici deontologici

In un brevissimo opuscolo, dedicato all’etica professionale, D. von Hildebrand (1935) imposta tutto il suo discorso sulla distinzione, insolita ma significativa, tra quella che egli chiama la professione primaria e le professioni secondarie. La professione primaria, comune a tutti gli esseri umani per il solo fatto di vivere nel mondo, corrisponde a quello che potremmo chiamare il difficile ‘mestiere di uomo’; le professioni secondarie sono invece i diversi compiti socialmente utili che l’uomo svolge all’interno della società. Le professioni secondarie sono intimamente connesse con la professione primaria che le include e dà loro senso e valore.
Le particolari professioni che l’uomo svolge nell’ambito dell’organizzazione sociale del lavoro si iscrivono perciò dentro questo modello ideale di umanità, che fa valere sul loro esercizio le sue esigenze e le sue leggi, che sono perciò in ultima analisi le esigenze e le leggi interne alla professione di uomo. È a queste esigenze e a queste leggi che si dà il nome di morale professionale.
Per alcune professioni più prestigiose e maggiormente cariche di responsabilità le stesse organizzazioni professionali, che inquadrano i membri di queste professioni, hanno già da tempo elaborato una raccolta di norme di comportamento etico, vincolante per i loro membri, cui viene dato il nome di codici di deontologia professionale: tali codici non intendono proporre un sistema globale di etica della professione, e tanto meno le ragioni profonde, di natura ideologica o religiosa, dell’impegno morale o il modello ideale di uomo che tale impegno aspira a realizzare; in una società pluralistica come la nostra una simile scelta ideologica sarebbe chiaramente impensabile; essi intendono soltanto vincolare, magari attraverso particolari sanzioni, i membri della professione a certe forme più significative ed essenziali di comportamento etico.
Naturalmente resta al singolo professionista il compito imprescindibile di ancorare queste norme deontologiche a una più globale e convincente visione del significato dell’impegno morale umano nel suo insieme, attraverso specifiche scelte personali di natura ideologica o religiosa. (Etica della comunicazione).

2. Le professioni della comunicazione sociale

Una professione particolarmente carica di responsabilità etiche è quella che riunisce quell’insieme variegato di competenze e di funzioni che costituiscono la comunicazione sociale. La rilevanza etica di queste professioni è legata a ciò che la comunicazione rappresenta per l’umanità dell’uomo.
L’uomo è costitutivamente un essere della comunicazione: egli diventa se stesso soltanto comunicando, cioè intessendo un reticolo fittissimo di rapporti interpersonali, attraverso i quali egli trasmette e riceve quella realtà eminentemente spirituale che è il messaggio.
Attraverso la mediazione di un codice linguistico, il messaggio trasmesso e ricevuto mette in contatto le persone che comunicano, aprendo l’una all’interiorità dell’altra e viceversa, recando a ognuna di esse qualcosa della ricchezza intima dell’altra e creando in questo modo una reale unità interpersonale, cui non raramente viene dato il nome suggestivo (e particolarmente evocativo per il credente) di comunione.
L’utilizzazione stessa di questo termine lascia intendere che la comunicazione non va vista soltanto alla stregua di una tra le tante attività che entrano nel campo di valutazione della morale, ma come un modo di essere dell’uomo, coesteso a tutta la sua vita e decisivo nei confronti della sua autorealizzazione.
Il primum etico della comunicazione è quindi la sua capacità di creare comunione. Da un certo punto di vista, i contenuti noetici del messaggio vengono ad assumere una funzione strumentale, rispetto a questa misteriosa fusione tra due o più mondi personali che costituisce la ‘comunione’.
Questo impone alla comunicazione l’impegno di una certa ‘dialogicità’ che presuppone in ognuno degli interlocutori un atteggiamento di accettazione e di promozione disinteressata dell’altro. Un simile atteggiamento comporta il superamento di ogni volontà di strumentalizzazione dell’altro e di ogni forma di imperialismo comunicativo.
La comunicazione appartiene al campo della gratuità; ma il primo dono fatto all’interlocutore è il suo considerarlo persona, partner di un dialogo alla pari. Perfino quando colui che parla pensa di possedere un messaggio carico di decisività salvifica per il suo interlocutore, come è nel caso particolarissimo di colui che testimonia la ‘buona notizia’ della salvezza offerta agli uomini in Cristo, la verità che è oggetto della comunicazione resta una verità aperta, mai totalmente posseduta o monopolizzata, comunicata in atteggiamento di ricerca; ogni verità si costruisce e si completa in una comunicazione dialogale; ogni verità si fa, nella storia di un rapporto interpersonale che arricchisce ognuno degli interlocutori, nella misura in cui ognuno sa mettersi in ascolto dell’altro e si apre alla comunicazione con l’altro, al di là di ogni calcolo di interesse personale.
La reciprocità del dialogo ha anche bisogno di tecniche specifiche; ma essa è soprattutto una forma di impegno etico che comporta una certa ascesi.
La comunicazione è mediata da quegli strumenti espressivi di natura linguistica, cui è affidato il compito di trasmettere il messaggio e cui possiamo dare il nome generico di ‘mezzi di comunicazione’ (Mass media).
Il mezzo di comunicazione più originario e fondamentale è il linguaggio in senso stretto. Alla sua logica e alle sue leggi si ispira in ultima istanza ogni altro mezzo di comunicazione.
Lo sviluppo del sapere e della tecnica ha dotato l’umanità di strumenti artificiali di comunicazione che permettono di far giungere simultaneamente lo stesso messaggio a milioni di persone, varcando con la rapidità della luce spazi di dimensioni planetarie.
Nella misura in cui queste forme di comunicazione costituiscono una funzione sociale, in cui la vita della società si esprime, si edifica, si difende e si trasforma, esse costituiscono nel loro insieme quello che si chiama la ‘comunicazione sociale’.
La comunicazione sociale unisce insieme in un unico dinamismo operativo, organicamente strutturato, competenze diverse che comprendono, oltre a quella del ‘giornalista’ in senso largo, quelle degli editori, degli agenti di pubblicità, degli uomini dello spettacolo. Agli effetti dell’etica professionale, possiamo considerare tutte queste competenze come costituenti l’unica professione degli operatori della comunicazione sociale.
L’efficacia manipolatrice di questa ‘macchina’ (tanto nei Paesi in cui essa è libera e ubbidisce solo alle leggi del mercato, quanto in quelli dove è totalmente manovrata dal potere politico) riversa sull’operatore dei media grandi responsabilità morali che egli deve attentamente soppesare e consapevolmente affrontare.
Forse è proprio a motivo di questa efficacia manipolatrice, e quindi della enorme rilevanza sociale della comunicazione di massa, che nessun’altra categoria, per quanto ci è noto, ha elaborato nella sua storia (e tutto sommato quella dei media non è poi tanto lunga) tanti diversi codici di deontologia professionale quanto quella dei giornalisti.
È perciò particolarmente urgente l’elaborazione sistematica di un’etica della professione di operatore dei media.
Nessuno può pensare seriamente a questo sistema come a un ‘ambasciatore che non porta pena’, come a una mediazione assolutamente trasparente e perciò neutrale tra la realtà oggettiva e i suoi destinatari.
L’influsso comunque esercitato sulle opinioni dei destinatari comporta, almeno indirettamente, un influsso sulle scelte e sui comportamenti della persone e, più in profondità, sulle stesse strutture della personalità.
La deontologia di tutte le figure professionali comunque impegnate nella comunicazione sociale sarà quindi profondamente contrassegnata dalle responsabilità morali, legate a questo influsso, di natura ultimamente educativa, e si situerà quindi, in modo pienamente appropriato, all’interno di un’etica delle professioni formative.

3. Norme e valori

Qualsiasi forma di discorso morale include in un modo o nell’altro delle indicazioni molto precise, di tipo imperativo, che aspirano a orientare e guidare il comportamento umano, in modo che esso persegua determinati ideali morali, realizzi determinati beni o valori morali, attui il perfezionamento morale dell’uomo, così come esso è concepito all’interno di quel particolare tipo di visione della realtà. Di tali norme sono appunto costituiti i codici di deontologia professionale.
Per non essere arbitrarie, queste indicazioni imperative devono a loro volta fondarsi su valori, che le norme intendono appunto promuovere o difendere. Questi valori hanno naturalmente molto a che fare con la visione globale del mondo, che sostiene tutto l’impegno morale e gli conferisce il suo senso.
Anche i codici di ‘deontologia professionale’, elaborati dai diversi ordini professionali all’interno della nostra società, essendo costituiti da un insieme di norme, hanno alla loro base un certo ordine o gerarchia di valori. Solo un’adeguata conoscenza di questi valori e della loro eventuale gerarchia permetterà di interpretare in maniera corretta le norme che li promuovono e difendono e di applicare nel modo migliore tali norme alla situazione concreta, risolvendo in modo giusto gli eventuali conflitti che dovessero emergere in certi casi particolari.

3.1. La promozione della felicità umana.
Praticamente tutti i codici di deontologia professionale fanno un qualche riferimento, nella elencazione delle norme vincolanti per i membri delle rispettive professioni, alla promozione della felicità umana come a uno dei valori fondanti e delle ragioni principali di queste norme.
La promozione di questa felicità non è soltanto un obiettivo proposto dai codici di deontologia professionale ai rispettivi operatori, è anche uno degli insegnamenti più importanti e caratterizzanti del messaggio morale di Gesù: il dar da mangiare agli affamati, il curare gli ammalati, il confortare i sofferenti sono indicati espressamente da Gesù come prova e attuazione concreta del comandamento dell’amore del prossimo, che egli assimila all’amore di Dio come sintesi di tutta la legge morale.
L’utilitarismo ha elevato questo obiettivo a criterio unico di moralità e a supremo imperativo etico: The greater happiness for the greater number (la felicità più grande per il numero più grande di persone) è diventato il simbolo della nostra civiltà o almeno di ciò che essa avrebbe voluto essere.
La promozione del benessere e della felicità umana costituisce indubbiamente la prima linea di confine che il professionista incontra, muovendosi dal piano della pura efficienza tecnica e andando verso il campo della positività morale.
La promozione del benessere umano è quindi il primo e più facilmente riconoscibile criterio di valutazione propriamente morale che l’operatore professionale è chiamato a prendere in considerazione nell’esercizio della sua professione.
In quanto specificamente morale, questo criterio differisce essenzialmente dai criteri di valutazione legati unicamente all’efficienza tecnica, pure molto importanti nell’esercizio di una professione.
Il giudizio di un’azione comincia quindi a essere morale in senso vero e proprio solo quando, al di là della correttezza della metodologia, investe i suoi stessi obiettivi. Un’azione è moralmente accettabile o corretta quando, oltre a essere attuata in modo efficiente dal punto di vista tecnico, si prefigge scopi e persegue risultati positivi, in termini di bene umano individuale e collettivo.
Va notato che, in molte situazioni particolari, l’esercizio della professione può avere, accanto a conseguenze buone, conseguenze negative, cioè indesiderate dal punto di vista dell’intenzione buona dell’agente. Come ogni medicina, esse hanno, accanto all’efficacia positiva, degli effetti collaterali negativi.
Se una buona coscienza dovesse interdirsi ogni azione dotata di effetti collaterali negativi, resterebbe prigioniera dell’inazione. Eppure in molte situazioni bisogna comunque agire; lo si potrà fare con buona coscienza, ogni volta che il saldo positivo tra effetti buoni e cattivi sia il maggiore possibile (tenendo conto non soltanto della quantità, ma anche della qualità e dell’urgenza dei beni).
In questo caso la valutazione morale assume l’aspetto matematico di un calcolo di massimizzazione del genere di quello, ben noto agli economisti, della massimizzazione dell’utilità.
Bene e male restano comunque qualcosa di rigorosamente oggettivo, come sono oggettive le conseguenze dell’azione in base alle quali la valutazione etica viene formulata.
Per quanto riguarda in particolare l’operatore della comunicazione sociale, i bisogni, le domande, l’utilità dei destinatari sono la finalità oggettiva, il senso del suo lavoro. E, dato il carattere sociale della comunicazione, le domande e i bisogni cui egli è chiamato a rispondere e l’utilità che gli è chiesto di produrre saranno di natura sociale e rientreranno perciò in quello che si suole chiamare il bene comune, un bene cioè che sia tale non solo per i singoli in particolare, ma anche per la loro convivenza in quanto tale. Il servizio del bene comune e del pubblico interesse deve essere considerato come obiettivo primario di ogni giornalista.

3.2. La giustizia.
Molti codici di deontologia professionale ricordano espressamente, accanto all’impegno per la promozione della felicità umana, quello per la realizzazione della giustizia, magari facendo riferimento ai diritti universali dell’uomo o semplicemente ai diritti umani.
Giustizia e diritto sono concetti dai contenuti intuitivi. Quanto all’idea che esistano diritti universali, cioè che ogni uomo, per il solo fatto di essere uomo, meriti certe forme almeno minimali di riconoscimento, aiuto e tutela, e che a questi diritti corrispondano precisi doveri da parte di altre persone, è qualcosa di universalmente riconosciuto e condiviso nella nostra cultura, soprattutto dopo che l’Onu ha solennemente proclamato un elenco di tali diritti universali.
È un’idea intimamente connessa con quella della dignità della persona umana: è proprio in forza di questa dignità comune a tutti gli uomini che ogni uomo è titolare di un uguale corredo di diritti fondamentali, legati alla sua qualità di persona.
A decidere che cosa sia giusto e che cosa non lo sia in molte situazioni è la comunità civile: le leggi dello Stato decidono tra le pretese concorrenti conferendo ad alcune di esse il carattere di diritto e negandolo ad altre.
Ma la legge non opera questa discriminazione in modo del tutto arbitrario: essa lo fa applicando, se pur con qualche inevitabile margine di arbitrarietà, alcuni principi generali, ritenuti vincolanti all’interno di una certa cultura e chiamati appunti ‘principi di giustizia’.
Un primo e decisivo principio di giustizia, al quale ricorrere nell’espletamento di questo compito, è quello che potremmo chiamare, con qualche filosofo moderno, principio di reciprocità, oppure, con altri, principio di universalizzabilità. Si tratta di un principio ispirato a una delle formulazioni dell’imperativo categorico di Kant, ma anche alla famosa regola d’oro del Vangelo: "Fai agli altri quello che vorresti che gli altri facessero a te".
Secondo questo principio è giusto per ogni persona e in ogni situazione ciò che essa riconoscerebbe giusto per qualsiasi altra persona che fosse, sotto ogni aspetto moralmente rilevante, in una situazione uguale alla propria, oppure, secondo la formulazione kantiana, va ritenuto come vincolante per sé quella regola di giustizia che si ritiene valida come elemento di una legislazione universale.
È una regola che chiede di giudicare del giusto e dell’ingiusto mettendosi nei panni di tutti gli interessati e vedendo le cose dal loro punto di vista.
Si tratta di una regola in un certo senso formale ma depositaria di una saggezza universale e capace di fungere da criterio di verifica per ogni altra regola di giustizia di carattere particolare e contenutistico.
Anche nel caso della comunicazione sociale l’esercizio della professione pone spesso davanti a una situazione di conflitto di interessi e quindi di difficile determinazione dei diritti e dei loro confini.
Il diritto del professionista alla libertà di espressione e di comunicazione trova la sua legittimazione più forte nelle esigenze del bene sociale: proprio per questo esso non può essere un diritto illimitato. Esso può collidere spesso con altri beni e diritti di natura personale e privata che gli impongono una limitazione.
Beni di questo genere come la privacy e la buona fama sono oggetto di precisi diritti, tutelati dalle leggi civili e da quelle morali.
Naturalmente ci sono casi in cui la diffusione di notizie lesive della buona fama di qualcuno diviene penalmente e moralmente lecita per il giornalista; e ci sono casi in cui tale divulgazione può essere richiesta da esigenze proporzionalmente gravi di bene comune. Sono i casi in cui il cosiddetto ‘diritto di cronaca o di critica’ prevale sulla tutela legale della buona fama altrui.
Nei casi, pensiamo non infrequenti, in cui il dubbio su ciò che sia giusto e ciò che non lo sia non può essere risolto con il semplice ricorso alla lettera della legge, tocca alla coscienza personale esprimere una valutazione responsabile per la quale non esiste parametro migliore del mettersi nei panni di tutte le parti interessate.
È la regola d’oro del Vangelo; ma è anche un principio fondamentale e imprescindibile di giustizia, di non facile applicazione ma di sicura validità morale.

3.3. Dignità e integrità della persona.
Ma la dignità della persona umana non è soltanto il fondamento ultimo di tutti gli altri valori: la dignità umana non viene soltanto promossa indirettamente e in modo generico, attuando ogni altra forma di bene morale o di valore; la dignità umana può essere promossa e difesa, oppure smentita e violata, anche in una maniera più diretta, promovendo o ledendo proprio ciò che fa la specificità umana dell’uomo.
La specificità umana dell’uomo, e quindi la vera radice e il nucleo centrale della sua dignità, è anzitutto legata alla sua libertà responsabile, che fa di ogni uomo un essere intrinsecamente ‘morale’: e questa qualità costitutiva è a sua volta incorporata e specificata, per ogni singola persona, nelle sue convinzioni morali e religiose.
Questa dignità appartiene a ogni uomo in modo così proprio e inviolabile che nulla, al di fuori delle sue scelte libere e responsabili, può veramente annullarla: il rispetto e la promozione di questa dignità è anzitutto compito e responsabilità di ogni singola persona.
Ciò non toglie che, all’interno della convivenza umana e dei rapporti di comunicazione interpersonale che essa comporta, ognuno possa influire, se pure in maniera indiretta e imparziale, sulle qualità morali delle altre persone.
Questo avviene in maniera specialissima all’interno delle professioni della comunicazione.

3.4. La verità.
Accanto a questi valori che potremmo definire antropocentrici, perché immediatamente orientati alla valorizzazione dell’uomo, è necessario in certi casi prendere in considerazione anche un valore che, in un certo senso, sembra trascendere l’uomo: è il valore della verità che fonda, da parte dell’uomo, l’impegno morale di amare, cercare, servire la verità.
Come la dignità della persona umana, così anche la verità non è soltanto un valore morale accanto ad altri: intesa in un senso ampio, la verità è un valore generale, coesteso a tutta l’esperienza morale, una dimensione del valore morale in quanto tale, presente in ogni atto morale.
La verità non è soltanto qualcosa cui si deve restare fedeli all’interno del gesto comunicativo. L’uomo ha nei suoi confronti una vocazione globale, intimamente connessa con la sua dignità di essere spirituale. Prima di essere detta, la verità deve essere amata e cercata come valore trascendente. Questa amorosa e incessante ricerca della verità è la veracità intesa nel suo significato più profondo e, ultimamente, religioso.
Ma la veracità non è solo un trascendentale della vita morale; è anche una virtù particolare che attua la fondamentale fedeltà dell’uomo alla verità del suo essere, nel campo specifico della comunicazione. Intesa in questo significato più ristretto, limitata perciò all’ambito, pure rilevantissimo, della comunicazione, la veracità non sembra costituire un valore a sé, distinto e autonomo rispetto ai valori morali fin qui presi in considerazione.
In moltissimi casi, dire la verità significa soltanto restare fedeli ai valori della promozione della felicità umana o della giustizia.
In tribunale come in politica e negli affari, perfino nelle piccole cose della vita quotidiana, mentire significa commettere una qualche ingiustizia: il mio prossimo ha nei miei confronti il diritto a non essere ingannato; difficilmente la menzogna non danneggia ingiustamente qualcuno in particolare. E comunque essa rappresenta sempre un attentato alla fiducia reciproca all’interno della convivenza umana, e quindi un danno inferto al bene comune, che di questa fiducia si alimenta.
Ma esiste anche una forma di comunicazione in cui chi comunica esprime se stesso, toccando in qualche modo le radici del proprio essere persona, un parlare in cui la verità detta è, in modo unico e profondo, la verità stessa di cui si è fatti. Chiameremo qui questo parlare con il nome di testimonianza.
La verità testimoniata non è una verità qualunque: la sua connotazione essenziale è di essere rivelazione del soggetto; il testimone "parla in quanto se stesso. L’istanza che entra nel suo parlare è il suo io stesso, l’unicità, il carattere vincolante, l’assolutezza del suo esistere".
Per questo la verità espressa nella testimonianza trascende colui che la possiede e la dice: è più grande di lui.
Ma l’essere sottomesso a questa verità che lo supera non è per il testimone una qualche diminuzione o schiavitù; è piuttosto la sorgente del suo valore e della sua identità: la verità che lo domina lo fa libero.
D’altra parte una simile testimonianza non è priva di una sua efficacia positiva. Ma ciò che essa realizza non è un bene premorale, bensì un valore direttamente etico. L’autenticità del testimone, prodotta dalla testimonianza veritiera, è il risultato specifico di questa forma di comunicazione (Giornalismo come testimonianza ).
Dire la verità, quando tale verità è quella del proprio essere, è lo stesso che attuarla.
Per quanto riguarda gli operatori della comunicazione la veracità è certamente il valore che in modo più specifico qualifica moralmente ogni forma di comunicazione: proprio in considerazione della funzione pubblica di questa forma di comunicazione esiste un diritto stretto degli utenti a non essere ingannati.
Ogni forma di comunicazione consapevolmente menzognera, o per la sostanza delle cose dette, o per l’importanza relativa a esse attribuita in rapporto ad altre informazioni, o per la qualità e significatività delle cose taciute (quando il tacerle rappresenta una deformazione intenzionale della verità), o per i commenti e le valutazioni da cui sono accompagnate, rappresenta una violazione dell’etica professionale della pubblicistica, una grave forma di ingiustizia nei confronti dei destinatari e un comportamento antisociale.
Neppure le migliori intenzioni educative possono autorizzare una consapevole distorsione della verità nella trasmissione di messaggi sociali. Educativa ultimamente è soltanto la verità; ogni consapevole alterazione della verità può provocare il plagio, non la crescita delle persone.

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Bibliografia

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Note

Come citare questa voce
Gatti Guido , Deontologia - A. Deontologia della comunicazione, in Franco LEVER - Pier Cesare RIVOLTELLA - Adriano ZANACCHI (edd.), La comunicazione. Dizionario di scienze e tecniche, www.lacomunicazione.it (28/03/2024).
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