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Autore: Ermanno Comuzio
Per c.s. si intende sia l’apparato tecnico che permette a un film (a un video, a un prodotto audiovisivo in genere) di trasmettere suoni, oltre che immagini, sia il risultato concreto dell’operazione nei suoi valori comunicativi ed estetici. La c.s. è composta di tre elementi: dialogo, musica, rumori (o effetti sonori). Il dialogo (o comunque il cosiddetto ‘parlato’) può essere quello degli attori che interpretano il filmato o la voce di uno speaker o del conduttore di determinate trasmissioni. I rumori possono essere ‘realistici’, legati cioè a immagini produttrici di suoni offerte contemporaneamente in visione sia ottenuti in ‘presa diretta’ sia rifatti artificialmente in sede di ‘missaggio’ o montaggio sonoro nonché aggiunti in funzione di sfondo o con valori immaginari e fantastici. Si intende qui, comunque, trattare della componente che appare linguisticamente e stilisticamente più interessante e complessa della c.s., e cioè della musica.
È un fatto che il cinema tende al sonoro fin dalla sua nascita. Lo ha detto anche Ejzenstejn, teorico e regista: "Il sonoro ebbe origine dall’impulso contenuto in potenza nel muto fin dalla nascita, oltre all’espressione plastica". Addirittura, il suono è venuto prima del cinema: le ‘pantomime luminose’ di Emile Reynaud (proiezioni di immagini in movimento del 1892) sono accompagnate dalla musica ed Edison arriva all’invenzione del cinema (prima dei Lumière, anche se questi ultimi giungono prima dell’inventore americano al brevetto e alla proiezione pubblica collettiva) per far vedere in azione i cantanti e gli esecutori i cui exploits erano già incisi nei suoi dischi (che poi come noto non erano dischi ma cilindri) (Giradischi).
Poi, si sa, c’è il lavoro del pianista accompagnatore, su cui esiste tutta una letteratura così come sullo stomper che, nei locali malfamati di New Orleans, batte sui tasti per rallegrare gli ospiti. Il pianista dei cinematografi lavora di fantasia e di tempismo, improvvisa e cita, cercando sempre di stare il più possibile addosso alle immagini che si susseguono sopra la sua testa. Qualcuno fa le cose in grande stile. In certi locali ci sono musicisti (non solo al piano, ma anche esecutori di piccoli complessi e, nei casi extra, direttori di vere e proprie orchestre) che non si accontentano della pratica artigianale, che studiano il film, prendono appunti, scelgono accuratamente le musiche rifacendosi a repertori appositi e, quando non ne trovano di adatte, le compongono loro stessi.
Più si fanno sentire esigenze di completezza più si diffonde la pratica del ‘pacchetto’ di musiche che per contratto devono seguire le ‘pizze’ del film ed essere eseguite durante le proiezioni. È certo che la Cines in Italia nel 1907 (poi la Ricordi nel 1910) e la Edison in USA nel 1909 pubblicano i primi Consigli sull’impiego della musica (chiamati anche Music Sheets), ossia fogli di suggerimenti: nasce da allora una vasta attività speculativa, in cui all’opera di saccheggio dei classici della musica operata dai ‘consiglieri musicali’ corrispondono ‘diritti’ più o meno appaganti.
Mentre l’uso dei suggerimenti è pratica comune in tutto il mondo, a lato di questi o in modo del tutto indipendente, nascono anche partiture completamente originali, appositamente composte per determinati film di prestigio. Il cinema muto può così vantare, in qualche caso, musiche di autori celebrati e risultati notevoli anche sotto il profilo artistico, risultati che giungono fino all’alba degli anni Trenta, in quanto il sonoro, nato nel 1926, arriva a essere applicato soltanto qualche anno dopo.
L’atteggiamento della ‘grande musica’ nei confronti del cinema, per quanto riguarda gli ambienti accademici, è nettamente ostile, talvolta di sopportazione. Ma gli ambienti dell’avanguardia si rivolgono con piena convinzione al nuovo mezzo, inserendolo nei campi d’attività che aprono nuovi orizzonti alla musica. Non si tratta di un fenomeno italiano, anche se da noi si è sviluppato quel controverso e non ancora completamente studiato movimento futurista che ha fatto da detonatore a tanta avanguardia d’oltralpe (Futurismo).
In Francia, appunto, i musicisti (e così i letterati, gli uomini di teatro, gli artisti) voltano le spalle all’impressionismo e gettano ponti, con un uso ‘oggettivo’ dei suoni, verso il cabaret, il jazz, il dadaismo, il surrealismo, le macchine, la velocità, la vita dinamica del nuovo secolo. Nel 1918 si sono riuniti attorno a Eric Satie i ‘nuovi giovani’, operanti insieme a Cendrars, Cocteau, Copeau, Apollinaire; più tardi si chiameranno Les Six, e tutti verranno in diversa misura coinvolti dal cinema.
La Compagnia dei Balletti Svedesi rappresenta uno spettacolo, nel 1924, il cui intermezzo (Entr’acte) è una fantasia filmata musicata da Satie; e nello stesso anno l’americano George Antheil, di simpatie futuriste, esegue a Parigi un Ballet mécanique per un film di Fernard Léger, con quattro pianoforti, due xilofoni e percussioni eterodosse (c’è anche un motore d’aereo).
In Germania accanto al filone operettistico si applicano al cinema sperimentalismi della musica colta (Hindemith, per esempio), in linea con le ricerche della ‘nuova oggettività’, sposando poi in pratica i risultati della Gebrauchsmusik, la musica di consumo (Dessau, Eisler, Weill). Tale fervore si rileva anche in Russia, dove non si è mai fatta distinzione fra musica ‘colta’ e musica per il cinema (basti pensare a Dunaevskij, Prokof’ev, Sostakovic, Scedrin, Snitke) e in Gran Bretagna (con Muir Mathieson, direttore d’orchesta e divulgatore, che porta al cinema Bliss, Vaughan Williams, Bax, Walton, Britten).
Fra i principali risultati raggiunti negli anni del muto, oltre quelli già citati, possiamo ricordare quelli firmati da Camille Saint-Saëns per L’assassinio del Duca di Guisa (1908), da Engelbert Humperdinck per Das Mirakel (1912), da Ildebrando Pizzetti per Cabiria (1914), da Pietro Mascagni per Rapsodia satanica (1915), da Giocondo Fino per Christus (1916), da Luigi Mancinelli per Frate Sole (1918), da Arthur Honneger per La roue (1921), da Dimitri Sostakovic per La nuova Babilonia (1929). Con la differenza che, per usare un’espressione del musicologo Sergio Miceli, mentre gli ‘accademici’ come Saint-Saëns e Pizzetti subirono il cinema, i rappresentanti dell’avanguardia come Antheil e Satie lo usarono.
Si giunge, così, al sonoro, che provoca nel cinema una febbre alta, quella dei film parlati e musicati al cento per cento. Le conseguenze sono che, a livello estetico, il cinema segna un regresso, diventando molto spesso un succedaneo del teatro, tanto che molti cineasti e intellettuali si dichiarano contrari al sonoro. Fra tutte le ‘dichiarazioni’ estetiche del periodo la più famosa è quella firmata dai registi russi Ejzenstejn, Pudovkin e Aleksandrov nel "Manifesto dell’asincronismo" (1928), in cui sono fissate alcune delle leggi espressive definitive del cinema sonoro. Perché ‘asincronismo’? Perché separando la ‘logica’ della sincronia perfetta, ma realisticamente piatta, fra immagine e suono, si possono ottenere effetti interessanti, creativi.
Siamo, con questo, al cuore dell’argomento. Poiché non è il caso di procedere cronologicamente, cerchiamo di vedere se quella composta per il cinema, per la radio, per la televisione, per la pubblicità (a prescindere dalle tendenze ‘nazionali’ o dai cambiamenti temporali e tecnici) è musica del nostro tempo; e se è musica vera, o soltanto pratica bassa o servile, "tappezzeria", secondo la sprezzante definizione di Strawinskij ("La musique du film? Du papier peint").
Anche i teorici che sono venuti dopo (Grierson, Arnheim, Kracauer, Montague, fra gli altri) hanno esaminato le varie possibilità del cinema sonoro ‘composito’, ricercando la corrispondenza fra suono e immagine, dunque facendo sempre i conti con la combinazione e la giustapposizione di due entità separate (trattamento ‘dualistico’ del medium). Forse (ma è solo un’ipotesi astratta) la perfetta natura del film sonoro non risiede nella combinazione estetica delle componenti visiva e auditiva, bensì in una loro ‘unità ontologica’: secondo il citato studioso jugoslavo il vero film sonoro dovrebbe essere una "struttura audiovisiva completa", postulando un mezzo orecchio-occhio capace non solo di registrare la realtà ma anche di "penetrarla".
Nonostante questi postulati, le incomprensioni o addirittura i giudizi sprezzanti si sono succeduti sistematicamente riguardo al settore che ci interessa. Si va dalle posizioni piuttosto goffe di coloro che per tenerla inchiodata alla sua condizione di ‘inferiorità’ considerano la musica per film un prodotto tecnologico e manipolato, mentre la musica da concerto sarebbe ‘pura’, agli attacchi che riguardano il piano concettuale. Certo gli esempi di uso sbagliato o eccessivo di suoni (dialoghi, musiche, rumori) sono assai numerosi. È anche vero che in diversi casi il dialogo prende il sopravvento sull’immagine, che la musica tiranneggia lo svolgimento della storia, o che la danneggia con la sua mediocrità. Ma occorre rendersi conto della indispensabilità del sonoro, della sua ‘centralità’, se è vero che non soltanto la musica nutre l’immagine, ma che "l’immagine modella anche l’effetto del suono", come suggerisce il teorico ungherese Béla Balasz.
Non si tratta dunque di aggiungere un elemento a un altro come si trattasse della vernice lucida o del ‘fissatore’ sui colori di un quadro, ma di comporre insieme una realtà ‘altra’ attingendo di volta in volta a strumenti diversi come la luce, la qualità della pellicola, il risuonare di un rumore, la cadenza di un ritmo, il tono di una voce, il movimento della cinepresa, una ricorrente melodia.
Ma a cosa serve allora la musica al cinema e in televisione? Dovrebbe servire a fare il prodotto audiovisivo degno di questo nome, come sembra ovvio, cioè a esaltare le immagini, a cantare con più trasporto gli amori, le passioni, i drammi, a definire con maggior suggestione i paesaggi e i momenti del giorno e della notte, a far lievitare con più leggiadria situazioni di grazia, a far risuonare con più robustezza vicende corali o monumentali. Ma si è ancora a uno stadio alquanto grezzo, alla superficie esterna della questione, che è invece più complicata di quanto sembri.
C’è, come sappiamo, la musica ‘realistica’ e quella ‘interna’: quella, nel primo caso, che esce da fonti visibili sullo schermo, come una radio in funzione, l’esecuzione di un concerto, un personaggio che suona uno strumento, e così via. Si tratta spesso di accorgimenti per far ascoltare una canzone di moda o un motivo di successo e in questo caso la musica non interessa, non è usata in funzione filmica. Talvolta però la musica preesistente ha una sua efficacia nella dimensione espressiva. Pensiamo al modo con cui i fratelli Taviani usano Verdi in La notte di San Lorenzo, Visconti usa il Trovatore e Bruckner in Senso, Bergman usa Bach in Sussurri e grida. Pensiamo anche al concerto durante il quale, in L’uomo che sapeva troppo, un sicario si appresta a uccidere un uomo di Stato; e alle esecuzioni al pianoforte che diventano causa dei sovvertimenti vitali delle esistenze dei protagonisti di Lezioni di piano.
Poi, si diceva, c’è la musica ‘interna’, quella che si sente (chiamiamola ‘di commento’) ma non si vede. La maggior parte delle volte fa da sfondo, è davvero da "tappezzeria", come dice Strawinskij. Sono tanti infatti gli interventi automatici, che scattano come meccanismi indotti, ormai obbligatori per determinate situazioni o per determinati generi. I violini nelle scene d’amore, i vibrati degli archi per i momenti di suspense, le voci allelujanti sulle inquadrature delle inviolate cime di montagne; e così il jazz metropolitano per storie di gangsters, il ‘charleston’ per gli anni Venti, la musica elettronica per la fantascienza e via dicendo. Siamo all’uso degli stereotipi, che porta alla sclerotizzazione del rapporto suono-immagine.
La migliore musica per il cinema e la televisione, tutto sommato, non è quella che ‘appoggia’ ciò che già si vede sullo schermo, ma quella che esprime ciò che da sola l’immagine non esprimerebbe. Che ne cerca l’anima interiore, per così dire, che ce ne restituisce il significato inespresso. La musica per film meglio riuscita è quella che nell’immagine si annulla. Dunque il risultato massimo sarebbe la musica ‘che non si sente’? Il compositore francese Maurice Jaubert ha detto: "Noi non andiamo al cinema per ascoltare della musica". Qualcuno ne ha ricavato la buffa teoria che la migliore musica cinematografica è quella di cui nessuno si accorge. Hanns Eisler e Theodor Adorno, nella loro lucida trattazione della materia, confutano nettamente questo pregiudizio.
Se è vero che non si va al cinema come a un concerto, è anche vero che la buona musica riesce a farsi ascoltare, deve farsi ascoltare. La sua qualità intrinseca contribuisce ad elevare il livello del film, come non si stanca di affermare il nostro E. Morricone. E tuttavia il lavoro del compositore è subordinato, di fronte alle immagini che è chiamato a musicare; i suoni che escono dagli altoparlanti situati dietro lo schermo o il teleschermo passano, per loro natura, attraverso una manipolazione imposta dalle tecniche di registrazione e di riproduzione; per non dire, ovviamente, della subordinazione del musicista di fronte alle esigenze di colui il regista che viene investito della responsabilità ultima del risultato complessivo.
Il bilanciamento fra le diverse esigenze è il risultato cui tendere: i casi migliori sono proprio quelli in cui si realizza il perfetto equilibrio fra l’elemento visivo e quello auditivo. In Morte a Venezia, in Padre padrone, in Film Blu, in Sotto i tetti di Parigi, in Mission, in Aleksander Nevski, in West Side Story, in Ascensore per il patibolo i risultati sono eccellenti perché la suggestione dei suoni porta a compimento la forza delle immagini. Perché essi ci permettono a un tempo di vedere e di ascoltare intensamente.
Potremmo chiederci quale tipo di musica (tradizionale o moderna) convenga per l’ottenimento di questi risultati. È subito ovvio che dipende dalle esigenze: ci sono casi in cui il ricorso alla tradizione funziona benissimo, altri in cui occorre tener conto delle possibilità della contemporaneità. Una lunga tradizione cinematografica è quella delle storie romantiche, sostenute di solito dalla tipica maniera hollywoodiana tardo-romantica, continuata da moltissime pellicole prodotte in tutto il mondo dove i sentimenti amorosi sono immersi in atmosfere tributarie di Ciajkovskij, Puccini, Schumann, Chopin (per lo meno della parte più superficiale e salottiera di questi autori) e della canzone rosa. Pensiamo solo a Un uomo, una donna (Lelouch) e a Love Story (Hiller), ambedue ‘beneficiati’ dalla saccarina melodica di Francis Lai. Poi ci sono le ulteriori degenerazioni, la musica ‘leggera’ e il ron-ron indefinibile (disco-music e rock morbido) sotto gli sceneggiati televisivi e le ‘soap opera’. Per contro, ci sono esempi di uso eccellente della musica moderna e altrettanti esempi di uso disastroso di tale tipo di musica. Secondo alcuni, anche per reazione al ‘conservatorismo’ musicale di Hollywood, solo la musica contemporanea dovrebbe aver diritto di cittadinanza, sotto le immagini. Adorno e Eisler sostengono che la musica atonale è la più adatta allo schermo: perché passa sopra all’obbligo della melodia a qualunque costo, perché non è costretta come la musica tonale ad avvolgersi attorno a un nucleo centrale, perché il racconto filmico e televisivo è fatto di ‘segmenti’ per cui lo svolgimento del commento musicale deve essere parallelo a quello cinematografico, perché così si va contro la ‘routine’ e si cercano strade nuove e diverse rifiutando le soluzioni ovvie, stanche e sfruttate all’infinito.
Un aspetto particolare dei suoni antitradizionali è l’uso delle nuove tecniche, specialmente dei suoni ‘artificiali’, prodotti cioè senza l’ausilio degli strumenti tradizionali. Accenno soltanto alla musica elettronica vera e propria e alla musica ‘sintetica’, prodotta da sintetizzatore o da altri meccanismi. Uno dei primi e più usati è il ‘Moog’, col quale si sono ottenuti gli interessanti risultati di Arancia meccanica (Kubrick), in cui brani famosi, riproposti nella ‘ricostruzione’ amplificata, riverberata e metallizzata nell’apparato, sottolineano l’aggressività di un mondo dominato dalla tecnologia traditrice dei valori umani. Sottili ed efficaci elaborazioni elettroniche ottiene John Carpenter che, come noto, è egli stesso autore delle musiche, in Fog (del 1980).
Oggi le ‘banche dati’ di certi apparati offrono soluzioni sterminate, anticipate da artisti e tecnici di ieri che hanno lavorato ancora in termini di artigianato. Il sonoro di un film come Volere volare di Nichetti omaggio alla gloriosa figura di un rumorista del cinema è stato realizzato grazie a un sofisticato strumento digitale, il ‘Synclavier 9600’, nella cui memoria sono contenuti appunto i suoni di un’intera orchestra, che il computer sceglie, adatta, elabora.
Più o meno tutti i compositori fanno ormai ricorso ai sintetizzatori, solo che alcuni vi si dedicano totalmente (anche perché non saprebbero comporre partiture orchestrali: vedi i casi di Moroder o del greco-americano Vangelis, oscarizzati anche se non sanno leggere la musica), altri invece, i più avvertiti, li inseriscono in orchestra, trattandoli come uno dei tanti strumenti a disposizione.
Qualcuno postula la possibilità di adeguare i ‘suoni nuovi’ offerti dalle moderne tecnologie a ‘nuove immagini’. Sostiene, cioè, che invece di utilizzare tali tecniche innovative per narrazioni visive ancorate a moduli del passato si potrebbe sintonizzare il visivo sulla stessa lunghezza d’onda dell’audio attraverso immagini prodotte elettronicamente, colmando così il fittizio divario ancora esistente tra cinema e video. Vale la pena di rilevare, a questo proposito, che una fertile palestra per la sperimentazione e la contaminazione dei linguaggi è stato il videoclip, nei suoi anni di affermazione planetaria (poi è diventato schema a sua volta): la vera novità nel settore della televisione, di solito fiaccamente succube del linguaggio cinematografico, la troviamo proprio nel videoclip e nell’influenza che ha esercitato sull’immagine elettronica.
Qualcuno paventa il pericolo che la musica d’oggi sia spersonalizzata, inaridita, diventata meccanica essa stessa. Ma non si deve dimenticare che l’autore c’è sempre, dietro le note. E non si devono tracciare steccati fra le diverse forme in cui si esplica attualmente il lavoro del musicista in questa società dove le manifestazioni della tradizione convivono necessariamente con i media del tempo come radio, televisione, cinema, e alle squisite distillazioni ‘da camera’ si affiancano esigenze ‘utilitarie’ come la sigla sonora per una trasmissione o l’inno per una manifestazione sportiva o per un partito politico.
Occorre accettare il fatto che tutto questo fa parte della musica contemporanea. Il lavoro del musicista attivo per gli audiovisivi, insomma, fa parte della produzione musicale della nostra epoca, cosa di cui lo storico della musica dovrà per forza tener conto.
1. Gli inizi
L’esercizio del vedere ha cercato fin dall’antichità di coniugarsi con l’ascolto dei suoni. Senza analizzare i risultati degli studi specifici sul rapporto fra suoni e arte della visione, sappiamo tutti che le proiezioni degli antenati del cinema (le ombre cinesi, le lanterne magiche, il teatro ottico e via dicendo) erano volentieri accompagnate dall’esecuzione di musiche. Da notare che, se il cinema ha acquistato il suono soltanto alla fine degli anni Venti, il cosiddetto ‘cinema muto’ non è mai stato veramente tale. "La stessa idea di film muto è di per sé fuorviante, poiché il termine fu applicato retroattivamente quando l’epoca del muto era già finita. Il film muto finì in qualche modo per essere interpretato come un film senza suono, invece che come un film senza c.s. riprodotta meccanicamente su di esso. In verità il film muto era sempre accompagnato da musica dal vivo, mentre il film sonoro è sempre accompagnato da un suono riprodotto meccanicamente" (Gillian B. Anderson, della Music Division of the Library of Congress di Washington).È un fatto che il cinema tende al sonoro fin dalla sua nascita. Lo ha detto anche Ejzenstejn, teorico e regista: "Il sonoro ebbe origine dall’impulso contenuto in potenza nel muto fin dalla nascita, oltre all’espressione plastica". Addirittura, il suono è venuto prima del cinema: le ‘pantomime luminose’ di Emile Reynaud (proiezioni di immagini in movimento del 1892) sono accompagnate dalla musica ed Edison arriva all’invenzione del cinema (prima dei Lumière, anche se questi ultimi giungono prima dell’inventore americano al brevetto e alla proiezione pubblica collettiva) per far vedere in azione i cantanti e gli esecutori i cui exploits erano già incisi nei suoi dischi (che poi come noto non erano dischi ma cilindri) (Giradischi).
Poi, si sa, c’è il lavoro del pianista accompagnatore, su cui esiste tutta una letteratura così come sullo stomper che, nei locali malfamati di New Orleans, batte sui tasti per rallegrare gli ospiti. Il pianista dei cinematografi lavora di fantasia e di tempismo, improvvisa e cita, cercando sempre di stare il più possibile addosso alle immagini che si susseguono sopra la sua testa. Qualcuno fa le cose in grande stile. In certi locali ci sono musicisti (non solo al piano, ma anche esecutori di piccoli complessi e, nei casi extra, direttori di vere e proprie orchestre) che non si accontentano della pratica artigianale, che studiano il film, prendono appunti, scelgono accuratamente le musiche rifacendosi a repertori appositi e, quando non ne trovano di adatte, le compongono loro stessi.
Più si fanno sentire esigenze di completezza più si diffonde la pratica del ‘pacchetto’ di musiche che per contratto devono seguire le ‘pizze’ del film ed essere eseguite durante le proiezioni. È certo che la Cines in Italia nel 1907 (poi la Ricordi nel 1910) e la Edison in USA nel 1909 pubblicano i primi Consigli sull’impiego della musica (chiamati anche Music Sheets), ossia fogli di suggerimenti: nasce da allora una vasta attività speculativa, in cui all’opera di saccheggio dei classici della musica operata dai ‘consiglieri musicali’ corrispondono ‘diritti’ più o meno appaganti.
2. L’avvento del sonoro
Colui che dà una precisa dignità a questa materia è Giuseppe Becce, un vicentino operante in Germania, autore di una vasta raccolta chiamata ‘Kinothek’ (abbreviazione di Kinobibliothek) e di un trattato in cui, a partire dal 1919, fornisce sia soli suggerimenti (autori e titoli, in base ai quali l’esecutore si procura la musica) sia ‘incipit’ pentagrammati, cioè la prima riga dello spartito.Mentre l’uso dei suggerimenti è pratica comune in tutto il mondo, a lato di questi o in modo del tutto indipendente, nascono anche partiture completamente originali, appositamente composte per determinati film di prestigio. Il cinema muto può così vantare, in qualche caso, musiche di autori celebrati e risultati notevoli anche sotto il profilo artistico, risultati che giungono fino all’alba degli anni Trenta, in quanto il sonoro, nato nel 1926, arriva a essere applicato soltanto qualche anno dopo.
L’atteggiamento della ‘grande musica’ nei confronti del cinema, per quanto riguarda gli ambienti accademici, è nettamente ostile, talvolta di sopportazione. Ma gli ambienti dell’avanguardia si rivolgono con piena convinzione al nuovo mezzo, inserendolo nei campi d’attività che aprono nuovi orizzonti alla musica. Non si tratta di un fenomeno italiano, anche se da noi si è sviluppato quel controverso e non ancora completamente studiato movimento futurista che ha fatto da detonatore a tanta avanguardia d’oltralpe (Futurismo).
In Francia, appunto, i musicisti (e così i letterati, gli uomini di teatro, gli artisti) voltano le spalle all’impressionismo e gettano ponti, con un uso ‘oggettivo’ dei suoni, verso il cabaret, il jazz, il dadaismo, il surrealismo, le macchine, la velocità, la vita dinamica del nuovo secolo. Nel 1918 si sono riuniti attorno a Eric Satie i ‘nuovi giovani’, operanti insieme a Cendrars, Cocteau, Copeau, Apollinaire; più tardi si chiameranno Les Six, e tutti verranno in diversa misura coinvolti dal cinema.
La Compagnia dei Balletti Svedesi rappresenta uno spettacolo, nel 1924, il cui intermezzo (Entr’acte) è una fantasia filmata musicata da Satie; e nello stesso anno l’americano George Antheil, di simpatie futuriste, esegue a Parigi un Ballet mécanique per un film di Fernard Léger, con quattro pianoforti, due xilofoni e percussioni eterodosse (c’è anche un motore d’aereo).
In Germania accanto al filone operettistico si applicano al cinema sperimentalismi della musica colta (Hindemith, per esempio), in linea con le ricerche della ‘nuova oggettività’, sposando poi in pratica i risultati della Gebrauchsmusik, la musica di consumo (Dessau, Eisler, Weill). Tale fervore si rileva anche in Russia, dove non si è mai fatta distinzione fra musica ‘colta’ e musica per il cinema (basti pensare a Dunaevskij, Prokof’ev, Sostakovic, Scedrin, Snitke) e in Gran Bretagna (con Muir Mathieson, direttore d’orchesta e divulgatore, che porta al cinema Bliss, Vaughan Williams, Bax, Walton, Britten).
Fra i principali risultati raggiunti negli anni del muto, oltre quelli già citati, possiamo ricordare quelli firmati da Camille Saint-Saëns per L’assassinio del Duca di Guisa (1908), da Engelbert Humperdinck per Das Mirakel (1912), da Ildebrando Pizzetti per Cabiria (1914), da Pietro Mascagni per Rapsodia satanica (1915), da Giocondo Fino per Christus (1916), da Luigi Mancinelli per Frate Sole (1918), da Arthur Honneger per La roue (1921), da Dimitri Sostakovic per La nuova Babilonia (1929). Con la differenza che, per usare un’espressione del musicologo Sergio Miceli, mentre gli ‘accademici’ come Saint-Saëns e Pizzetti subirono il cinema, i rappresentanti dell’avanguardia come Antheil e Satie lo usarono.
Si giunge, così, al sonoro, che provoca nel cinema una febbre alta, quella dei film parlati e musicati al cento per cento. Le conseguenze sono che, a livello estetico, il cinema segna un regresso, diventando molto spesso un succedaneo del teatro, tanto che molti cineasti e intellettuali si dichiarano contrari al sonoro. Fra tutte le ‘dichiarazioni’ estetiche del periodo la più famosa è quella firmata dai registi russi Ejzenstejn, Pudovkin e Aleksandrov nel "Manifesto dell’asincronismo" (1928), in cui sono fissate alcune delle leggi espressive definitive del cinema sonoro. Perché ‘asincronismo’? Perché separando la ‘logica’ della sincronia perfetta, ma realisticamente piatta, fra immagine e suono, si possono ottenere effetti interessanti, creativi.
Siamo, con questo, al cuore dell’argomento. Poiché non è il caso di procedere cronologicamente, cerchiamo di vedere se quella composta per il cinema, per la radio, per la televisione, per la pubblicità (a prescindere dalle tendenze ‘nazionali’ o dai cambiamenti temporali e tecnici) è musica del nostro tempo; e se è musica vera, o soltanto pratica bassa o servile, "tappezzeria", secondo la sprezzante definizione di Strawinskij ("La musique du film? Du papier peint").
3. Sonoro "tappezzeria" e sonoro espressivo
Il citato Ejzenstejn parla intanto di cinema sonoro come "polifonia intrecciata con percezione delle parti musicali e dell’immagine come una integrità" (ma un critico dell’ex Jugoslavia, Vladimir Petric, chiarisce che usando il termine "integrità" Ejzenstejn pensava sempre alla sincronizzazione e al contrappunto, insomma all’uso di due elementi staccati e combinati fra loro).Anche i teorici che sono venuti dopo (Grierson, Arnheim, Kracauer, Montague, fra gli altri) hanno esaminato le varie possibilità del cinema sonoro ‘composito’, ricercando la corrispondenza fra suono e immagine, dunque facendo sempre i conti con la combinazione e la giustapposizione di due entità separate (trattamento ‘dualistico’ del medium). Forse (ma è solo un’ipotesi astratta) la perfetta natura del film sonoro non risiede nella combinazione estetica delle componenti visiva e auditiva, bensì in una loro ‘unità ontologica’: secondo il citato studioso jugoslavo il vero film sonoro dovrebbe essere una "struttura audiovisiva completa", postulando un mezzo orecchio-occhio capace non solo di registrare la realtà ma anche di "penetrarla".
Nonostante questi postulati, le incomprensioni o addirittura i giudizi sprezzanti si sono succeduti sistematicamente riguardo al settore che ci interessa. Si va dalle posizioni piuttosto goffe di coloro che per tenerla inchiodata alla sua condizione di ‘inferiorità’ considerano la musica per film un prodotto tecnologico e manipolato, mentre la musica da concerto sarebbe ‘pura’, agli attacchi che riguardano il piano concettuale. Certo gli esempi di uso sbagliato o eccessivo di suoni (dialoghi, musiche, rumori) sono assai numerosi. È anche vero che in diversi casi il dialogo prende il sopravvento sull’immagine, che la musica tiranneggia lo svolgimento della storia, o che la danneggia con la sua mediocrità. Ma occorre rendersi conto della indispensabilità del sonoro, della sua ‘centralità’, se è vero che non soltanto la musica nutre l’immagine, ma che "l’immagine modella anche l’effetto del suono", come suggerisce il teorico ungherese Béla Balasz.
Non si tratta dunque di aggiungere un elemento a un altro come si trattasse della vernice lucida o del ‘fissatore’ sui colori di un quadro, ma di comporre insieme una realtà ‘altra’ attingendo di volta in volta a strumenti diversi come la luce, la qualità della pellicola, il risuonare di un rumore, la cadenza di un ritmo, il tono di una voce, il movimento della cinepresa, una ricorrente melodia.
Ma a cosa serve allora la musica al cinema e in televisione? Dovrebbe servire a fare il prodotto audiovisivo degno di questo nome, come sembra ovvio, cioè a esaltare le immagini, a cantare con più trasporto gli amori, le passioni, i drammi, a definire con maggior suggestione i paesaggi e i momenti del giorno e della notte, a far lievitare con più leggiadria situazioni di grazia, a far risuonare con più robustezza vicende corali o monumentali. Ma si è ancora a uno stadio alquanto grezzo, alla superficie esterna della questione, che è invece più complicata di quanto sembri.
C’è, come sappiamo, la musica ‘realistica’ e quella ‘interna’: quella, nel primo caso, che esce da fonti visibili sullo schermo, come una radio in funzione, l’esecuzione di un concerto, un personaggio che suona uno strumento, e così via. Si tratta spesso di accorgimenti per far ascoltare una canzone di moda o un motivo di successo e in questo caso la musica non interessa, non è usata in funzione filmica. Talvolta però la musica preesistente ha una sua efficacia nella dimensione espressiva. Pensiamo al modo con cui i fratelli Taviani usano Verdi in La notte di San Lorenzo, Visconti usa il Trovatore e Bruckner in Senso, Bergman usa Bach in Sussurri e grida. Pensiamo anche al concerto durante il quale, in L’uomo che sapeva troppo, un sicario si appresta a uccidere un uomo di Stato; e alle esecuzioni al pianoforte che diventano causa dei sovvertimenti vitali delle esistenze dei protagonisti di Lezioni di piano.
Poi, si diceva, c’è la musica ‘interna’, quella che si sente (chiamiamola ‘di commento’) ma non si vede. La maggior parte delle volte fa da sfondo, è davvero da "tappezzeria", come dice Strawinskij. Sono tanti infatti gli interventi automatici, che scattano come meccanismi indotti, ormai obbligatori per determinate situazioni o per determinati generi. I violini nelle scene d’amore, i vibrati degli archi per i momenti di suspense, le voci allelujanti sulle inquadrature delle inviolate cime di montagne; e così il jazz metropolitano per storie di gangsters, il ‘charleston’ per gli anni Venti, la musica elettronica per la fantascienza e via dicendo. Siamo all’uso degli stereotipi, che porta alla sclerotizzazione del rapporto suono-immagine.
4. Musica che si annulla nell’immagine
Più interessante la musica che, con la sua funzione, concorre insieme agli altri elementi della c.s. a raccontare con le immagini, a costruire la narrazione. Solo alcuni esempi: è la chitarra di Narciso Yepes a esprimere attorno alla vicenda dei due piccoli protagonisti di Giochi proibiti l’immensa pietà dell’autore e di noi spettatori; è l’uso audace di uno spiritual della cultura afro-americana a dare ali alla Natività nel Vangelo secondo Matteo di Pasolini; è il ritmo scandito rigorosamente sul battito dell’orologio a rendere insopportabile la tensione dello sceriffo Gary Cooper che in Mezzogiorno di fuoco attende il treno apportatore di morte.La migliore musica per il cinema e la televisione, tutto sommato, non è quella che ‘appoggia’ ciò che già si vede sullo schermo, ma quella che esprime ciò che da sola l’immagine non esprimerebbe. Che ne cerca l’anima interiore, per così dire, che ce ne restituisce il significato inespresso. La musica per film meglio riuscita è quella che nell’immagine si annulla. Dunque il risultato massimo sarebbe la musica ‘che non si sente’? Il compositore francese Maurice Jaubert ha detto: "Noi non andiamo al cinema per ascoltare della musica". Qualcuno ne ha ricavato la buffa teoria che la migliore musica cinematografica è quella di cui nessuno si accorge. Hanns Eisler e Theodor Adorno, nella loro lucida trattazione della materia, confutano nettamente questo pregiudizio.
Se è vero che non si va al cinema come a un concerto, è anche vero che la buona musica riesce a farsi ascoltare, deve farsi ascoltare. La sua qualità intrinseca contribuisce ad elevare il livello del film, come non si stanca di affermare il nostro E. Morricone. E tuttavia il lavoro del compositore è subordinato, di fronte alle immagini che è chiamato a musicare; i suoni che escono dagli altoparlanti situati dietro lo schermo o il teleschermo passano, per loro natura, attraverso una manipolazione imposta dalle tecniche di registrazione e di riproduzione; per non dire, ovviamente, della subordinazione del musicista di fronte alle esigenze di colui il regista che viene investito della responsabilità ultima del risultato complessivo.
Il bilanciamento fra le diverse esigenze è il risultato cui tendere: i casi migliori sono proprio quelli in cui si realizza il perfetto equilibrio fra l’elemento visivo e quello auditivo. In Morte a Venezia, in Padre padrone, in Film Blu, in Sotto i tetti di Parigi, in Mission, in Aleksander Nevski, in West Side Story, in Ascensore per il patibolo i risultati sono eccellenti perché la suggestione dei suoni porta a compimento la forza delle immagini. Perché essi ci permettono a un tempo di vedere e di ascoltare intensamente.
Potremmo chiederci quale tipo di musica (tradizionale o moderna) convenga per l’ottenimento di questi risultati. È subito ovvio che dipende dalle esigenze: ci sono casi in cui il ricorso alla tradizione funziona benissimo, altri in cui occorre tener conto delle possibilità della contemporaneità. Una lunga tradizione cinematografica è quella delle storie romantiche, sostenute di solito dalla tipica maniera hollywoodiana tardo-romantica, continuata da moltissime pellicole prodotte in tutto il mondo dove i sentimenti amorosi sono immersi in atmosfere tributarie di Ciajkovskij, Puccini, Schumann, Chopin (per lo meno della parte più superficiale e salottiera di questi autori) e della canzone rosa. Pensiamo solo a Un uomo, una donna (Lelouch) e a Love Story (Hiller), ambedue ‘beneficiati’ dalla saccarina melodica di Francis Lai. Poi ci sono le ulteriori degenerazioni, la musica ‘leggera’ e il ron-ron indefinibile (disco-music e rock morbido) sotto gli sceneggiati televisivi e le ‘soap opera’. Per contro, ci sono esempi di uso eccellente della musica moderna e altrettanti esempi di uso disastroso di tale tipo di musica. Secondo alcuni, anche per reazione al ‘conservatorismo’ musicale di Hollywood, solo la musica contemporanea dovrebbe aver diritto di cittadinanza, sotto le immagini. Adorno e Eisler sostengono che la musica atonale è la più adatta allo schermo: perché passa sopra all’obbligo della melodia a qualunque costo, perché non è costretta come la musica tonale ad avvolgersi attorno a un nucleo centrale, perché il racconto filmico e televisivo è fatto di ‘segmenti’ per cui lo svolgimento del commento musicale deve essere parallelo a quello cinematografico, perché così si va contro la ‘routine’ e si cercano strade nuove e diverse rifiutando le soluzioni ovvie, stanche e sfruttate all’infinito.
5. Tradizione e musica di oggi
Ma è certo che non basta utilizzare musica atonale o ricorrere alla dodecafonia o alla musica concreta, al puntillismo, all’aleatorietà, o a una qualsiasi delle avanguardie musicali che si rincorrono continuamente, scavalcandosi e ripetendosi, per fare della buona musica per immagini. Dipende (il concetto è ripetuto, ma è basilare) dalla circostanza filmica che richiede questo tipo di soluzione oppure no. Persona (di Bergman) non può prescindere da una partitura fatta di suoni disarticolati, di note che non riescono a organizzarsi in una linea compiuta, visto che presenta il disfacimento di una personalità; in altri film invece l’uso di materiali sonori ‘disgregati’ è soltanto espressione di aridità e di supponenza.Un aspetto particolare dei suoni antitradizionali è l’uso delle nuove tecniche, specialmente dei suoni ‘artificiali’, prodotti cioè senza l’ausilio degli strumenti tradizionali. Accenno soltanto alla musica elettronica vera e propria e alla musica ‘sintetica’, prodotta da sintetizzatore o da altri meccanismi. Uno dei primi e più usati è il ‘Moog’, col quale si sono ottenuti gli interessanti risultati di Arancia meccanica (Kubrick), in cui brani famosi, riproposti nella ‘ricostruzione’ amplificata, riverberata e metallizzata nell’apparato, sottolineano l’aggressività di un mondo dominato dalla tecnologia traditrice dei valori umani. Sottili ed efficaci elaborazioni elettroniche ottiene John Carpenter che, come noto, è egli stesso autore delle musiche, in Fog (del 1980).
Oggi le ‘banche dati’ di certi apparati offrono soluzioni sterminate, anticipate da artisti e tecnici di ieri che hanno lavorato ancora in termini di artigianato. Il sonoro di un film come Volere volare di Nichetti omaggio alla gloriosa figura di un rumorista del cinema è stato realizzato grazie a un sofisticato strumento digitale, il ‘Synclavier 9600’, nella cui memoria sono contenuti appunto i suoni di un’intera orchestra, che il computer sceglie, adatta, elabora.
Più o meno tutti i compositori fanno ormai ricorso ai sintetizzatori, solo che alcuni vi si dedicano totalmente (anche perché non saprebbero comporre partiture orchestrali: vedi i casi di Moroder o del greco-americano Vangelis, oscarizzati anche se non sanno leggere la musica), altri invece, i più avvertiti, li inseriscono in orchestra, trattandoli come uno dei tanti strumenti a disposizione.
Qualcuno postula la possibilità di adeguare i ‘suoni nuovi’ offerti dalle moderne tecnologie a ‘nuove immagini’. Sostiene, cioè, che invece di utilizzare tali tecniche innovative per narrazioni visive ancorate a moduli del passato si potrebbe sintonizzare il visivo sulla stessa lunghezza d’onda dell’audio attraverso immagini prodotte elettronicamente, colmando così il fittizio divario ancora esistente tra cinema e video. Vale la pena di rilevare, a questo proposito, che una fertile palestra per la sperimentazione e la contaminazione dei linguaggi è stato il videoclip, nei suoi anni di affermazione planetaria (poi è diventato schema a sua volta): la vera novità nel settore della televisione, di solito fiaccamente succube del linguaggio cinematografico, la troviamo proprio nel videoclip e nell’influenza che ha esercitato sull’immagine elettronica.
Qualcuno paventa il pericolo che la musica d’oggi sia spersonalizzata, inaridita, diventata meccanica essa stessa. Ma non si deve dimenticare che l’autore c’è sempre, dietro le note. E non si devono tracciare steccati fra le diverse forme in cui si esplica attualmente il lavoro del musicista in questa società dove le manifestazioni della tradizione convivono necessariamente con i media del tempo come radio, televisione, cinema, e alle squisite distillazioni ‘da camera’ si affiancano esigenze ‘utilitarie’ come la sigla sonora per una trasmissione o l’inno per una manifestazione sportiva o per un partito politico.
Occorre accettare il fatto che tutto questo fa parte della musica contemporanea. Il lavoro del musicista attivo per gli audiovisivi, insomma, fa parte della produzione musicale della nostra epoca, cosa di cui lo storico della musica dovrà per forza tener conto.
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Entr’acte, 1924, film diretto da René Clair e scritto da Francis Picabia, concepito come intermezzo da proiettare nell’intervallo del balletto Relâche su musiche di Erik Satie. Parte 1/2
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Come citare questa voce
Comuzio Ermanno , Colonna sonora, in Franco LEVER - Pier Cesare RIVOLTELLA - Adriano ZANACCHI (edd.), La comunicazione. Dizionario di scienze e tecniche, www.lacomunicazione.it (06/12/2024).
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