Massa

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1. Referenti del concetto di m.

Fin dalle origini il termine m. ha avuto referenti diversi, ciascuno dei quali con connotazioni anche contraddittorie. Per alcuni il referente è stato il proletariato, cioè l’insieme delle classi che, a seconda della filosofia politica, si definiscono governate o dominate; per altri, invece, è costituito dalla piccola e media borghesia, le classi medie che, pur non identificandosi sempre con quelle governanti, rappresentano le forze dominanti. A tali accezioni politiche si è spesso aggiunta, a volte intrecciandovi i propri significati, un’accezione psicologico-sociale che ruota intorno al referente di moltitudine: gente che manifesta moti collettivi per stimoli o pulsioni condivisi e che, se concentrata in uno spazio, diventa sinonimo di folla.
Durante il Medioevo sono chiamate m. le corporazioni di arti e mestieri più comuni e il riferimento ai lavori manuali si perpetua nei successivi usi del termine per indicare, fino al Settecento, i ceti inferiori, gli strati sociali più poveri. Nell’Ottocento il termine m. si diffonde nel linguaggio storico e sociologico per un insieme di fattori: da un lato, il ruolo dei moti di folla durante la Rivoluzione francese, la formazione del proletariato industriale nelle città, lo sviluppo del movimento di rivendicazione sociale; dall’altro, l’ascesa egemonica delle classi medie in economia e in politica. La nuova visibilità dei ceti inferiori sollecita gli interpreti del movimento sociale, Marx in testa, a una connotazione progressista delle m. proletarie, designate quali agenti di mutamento che, una volta risvegliate alla coscienza di classe, avrebbero avuto ragione della società borghese. All’opposto ideologico, autori come Nietzsche (1844-1900) hanno per referente le classi medie, mentre individuano nell’avvento delle m. il trionfo della mediocrità e il declino della civiltà europea. In una posizione intermedia si collocano fautori della democrazia liberale come A. de Tocqueville (1805-1859) e J. Stuart Mill (1806-1873) i quali, pur referendosi alle classi medie, temono che le forme di governo democratico possano ingenerare una nuova specie di despotismo, la "tirannia della maggioranza".
La visione reazionaria dei fenomeni di m. ha avuto largo seguito, fino ai nostri giorni, soprattutto per influenza di due opere: Psicologia delle folle di G. Le Bon (1895) e La ribellione delle masse di J. Ortega y Gasset (1930). Nella folla, il referente temuto da Le Bon, si riduce la coscienza, il senso di responsabilità, e l’eccitazione derivante dalla vicinanza (fisica, ma pure soltanto di condizioni o di credenze) rende gli individui come automi che, non governabili dalla volontà, si abbandonano all’irrazionale dissolvendosi nel numero. Ebbene, Le Bon usa il termine m. per designare sia gli individui nella folla, che sono appunto "trasformati in massa", sia la moltitudine anonima da cui emergono le folle. L’ambiguità è criticata da G. Tarde (L’opinion et la foule, 1901) il quale, risolta la confusione tra m., folla e moltitudine (quest’ultima da lui vista come "riunione fisica di un gran numero di persone che implica contiguità e contagio emozionale"), introduce il concetto di pubblico definendolo "dispersione di più individui coesi soltanto da suggestione a distanza". A sua volta Ortega y Gasset sottolinea la carica distruttiva, la regressione agli stati infantili o atavici, l’egoismo e lo sprezzo dei valori che connotano le m.
Questi tratti psicologici della m., con particolare riferimento all’opera di Le Bon, sono oggetto di attento studio da parte di S. Freud (1856-1939) nell’opera Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921). Esistono energie inconsce che vengono liberate dai vincoli sociali soltanto nelle anonime situazioni di m. Il "potere psicologico" per cui i sentimenti e le idee orientati nella stessa direzione formano una "mente collettiva" determina, per alchimia sociale, la metamorfosi dell’uomo isolato nell’uomo della folla. Per il fondatore della psicanalisi la m. è un numero rilevante di persone collegate in unità – naturale o artificiale, spontanea oppure organizzata – da un "potere" o legame psicologico riconducibile in ultima analisi a una manifestazione dell’Eros. Caratteristico è appunto il fatto che un individuo, di cui sono note le predisposizioni e le intenzioni, mostri di sentire e agire in maniera affatto diversa quando sia inserito (fisicamente, ma anche solo affettivamente) in una m. di riferimento. Oltre al contributo illuminante per l’approfondimento del concetto di m., Freud anticipa quindi aspetti essenziali della teoria del ‘gruppo di riferimento’. (Gruppo)

2. La società di m.

Nell’interpretazione emersa dalla corrente elitista della sociologia contemporanea, per m. s’intende una moltitudine politicamente amorfa, disorganizzata, in posizione di dipendenza e fortemente influenzabile dalla volontà e dalla direzione di una minoranza organizzata. Questa m. coincide con la grande maggioranza della popolazione in tutti i Paesi industrializzati, non soltanto capitalistici, dove si sarebbe sviluppata una società di m. Secondo C. W. Mills (1916-1962) – che riflette in particolare sulla struttura americana – nel sistema del capitalismo avanzato la maggioranza, inclusi lavoratori e classi medie, è in posizione totalmente subordinata a una élite che, al vertice della piramide del potere (politico, economico e militare), prende tutte le decisioni, risultando nei fatti irresponsabile e inamovibile (L’élite del potere, 1956). Lungo i gradini della scala sociale si distribuisce un fitto schieramento di professionisti, impiegati, burocrati e altre figure intermedie che hanno in comune il fatto di non svolgere un lavoro manuale: sono i cosiddetti "colletti bianchi" che vivono in condizione di privilegio il sentirsi differenti dai "colletti blu", i salariati dell’industria (Colletti bianchi. La classe media americana, 1951). I "colletti bianchi" costituiscono la base di un consenso passivo e acritico, funzionale al mantenimento dei rapporti di potere. Rovesciando diametralmente le qualità del pubblico, nella m. di Mills: a) coloro che esprimono opinioni sono di gran lunga meno numerosi di coloro che le ricevono; b) la comunicazione di notizie e opinioni è organizzata in modo tale che per l’individuo è difficile, se non impossibile, rispondere immediatamente con efficacia; c) il passaggio da un’opinione all’azione è controllato dalle autorità; d) gli agenti delle autorità penetrano nella m., riducendo le possibilità degli individui di formarsi autonomamente opinioni con la discussione.
Sulla stessa lunghezza d’onda è la critica di D. Riesman alla "società opulenta", descritta come territorio confortevole ma desolato in cui una folla solitaria vaga disordinatamente cercando di soddisfare, peraltro in modo parziale, bisogni fittizi artificiosamente indotti (La folla solitaria, 1950). L’America di Riesman è quella del "buon americano" smanioso di elevare il proprio status sociale e di ostentare il benessere raggiunto; i suoi comportamenti di consumo assumono valenze simboliche che – in linea con il modello dei "consumi vistosi" già proposto da T. Veblen (1857-1929) – fanno aggio sull’utilità dei beni.
Se per i critici della società di m. – osserva G. Losito (1998) – la fine del conflitto sociale è il risultato di "nuove forme più subdole di dominio", per i suoi apologeti è, al contrario, l’esito positivo di un "processo di democratizzazione" che ha attutito opposizioni e contrasti. Quest’ultima è la posizione, tra gli altri, di E. Shils (1960), il quale scrive: "La nuova società è una società di massa, precisamente nel senso che la massa della popolazione è stata incorporata nella società. Il centro della società... ha allargato i suoi confini. La maggior parte della popolazione (la ‘massa’) si trova ora in un rapporto con il centro più stretto di quanto non lo fosse nelle società premoderne o nei primi stadi della società moderna". Pertanto nella società di m. il consenso è assicurato dalla reciproca integrazione tra il "centro" (l’élite) e la "periferia" (la m.), con la conseguente scomparsa tendenziale delle forme più distruttive di conflitto sociale.

3. La m. nella comunicazione

Per taluni aspetti contrapposto a quelli ricordati in precedenza è il significato della m. come aggregato indifferenziato di individui anonimi e atomizzati che sono destinatari dei messaggi diffusi dai mezzi di comunicazione di m. Con l’implicazione che individui ‘separati e lontani’ reagiscano in modo analogo a stimoli analoghi, in questa accezione il termine m. ha una ‘componente soggettiva’ che non è presente nelle altre: è infatti l’emittente dei messaggi a etichettare genericamente come m. i destinatari, trascurandone le caratteristiche sociali che possono rendere anche estremamente diversificati i loro comportamenti. In tal senso è da intendere l’affermazione di R. Williams (1961): "non vi sono di fatto masse; vi sono solo modi di considerare la gente come masse".
A partire dagli anni Settanta le scienze sociali, e in particolare gli studi sulla comunicazione, sottopongono a critica i metodi e i concetti fino ad allora utilizzati. Tra questi concetti un’attenzione particolare è riservata alla m. Aumentano ad esempio le obiezioni alla tesi di quanti intendono mantenere l’espressione ‘di m.’ a fianco di ‘comunicazione’, mentre si fa strada il favore per chi vorrebbe ridurre il concetto al sostantivo, abbracciando, in tal modo, il più vasto campo di ricerca. Insoddisfazione per il termine m. si coglie nell’ambito dei cultural studies. R. Williams (1974) critica la nozione che, "ingannevole e pericolosa", ha deformato lo studio della comunicazione: fatto risalire l’uso del termine alla teoria della "società di massa", egli spiega come le caratteristiche insufficienti della stessa si siano trasferite nell’applicazione dell’aggettivale alla comunicazione. La "metafora massa", adottata nel suo più fragile connotare la vasta audience, ha ostacolato l’analisi delle più specifiche situazioni della moderna comunicazione. Nell’affrontare le tradizioni di ricerca del proprio Paese, J. Carey (1977) rinfocola: "gli americani non sono stati mai in grado di evitare, malgrado l’enfasi sui piccoli gruppi, il pregiudizio che il termine ‘massa’ ha recato ai loro studi". L’argomentazione secondo cui il concetto di m., implicando l’idea di un aggregato indifferenziato, ignora drasticamente le varie e specifiche forme di "interazione sociale" è inoltre sviluppata da R. Escarpit (1977). Si tratta a suo giudizio di un "errore" nelle percezione sociale dell’utente, posizione in linea con quella di H. Blumer (1966) per il quale c’è poca interazione o scambio di esperienza tra i componenti della m.
Ma torniamo a Williams. Gli argomenti da lui portati ‘contro’ l’uso del concetto di m. sono in sintesi: 1) l’eredità cieca delle nozioni di "larga scala" e "raggruppamento omogeneo"; 2) l’assunzione che le m. siano intrinsecamente stupide, instabili e influenzabili; 3) la limitazione degli studi sulla comunicazione a poche aree maggiori come il broadcasting, il cinema e quella che viene impropriamente definita letteratura popolare. In scritti successivi Williams (1976, 1977) qualifica la comunicazione di m. come un "concetto borghese" e vede nella "massificazione" un modo per disarmare e inglobare la classe operaia.
Il pensiero di Williams non è condiviso, almeno in parte, da J. Corner (1998). Anzitutto il più diffuso impiego dell’espressione aggettivale "di massa" non implica necessariamente – sostiene Corner – che la "comunicazione di massa" sia concepibile soltanto nella prospettiva teoretica della "società di massa". Molti ricercatori l’hanno infatti impiegata, e la impiegano, in argomentazioni fondate su una gamma di posizioni che spaziano dal pluralismo liberale a vari indirizzi radicali della teoria sociale. In secondo luogo la comunicazione di massa è stata spesso analizzata, è vero, in modi discutibili, ma ciò non autorizza a inferire un "peccato d’origine" nel concetto di m. né ad avvalorare automaticamente la passività e la credulità delle audience; l’approccio uses and gratifications, per esempio, suggerisce giusto il contrario, sottolineando l’attività delle audience mentre non rinuncia al termine m. nelle proprie formulazioni. La terza critica di Williams, la limitazione degli studi sulla comunicazione a poche aree maggiori, sembra a Corner esagerata: è stato infatti portato avanti un complesso lavoro sulle convenzioni sociali e sulle caratteristiche del linguaggio, della scrittura, della comunicazione non-verbale e dell’ immaginario visivo che ha influenzato, per la sua ‘rilevanza’ d’analisi, la ricerca sui processi delle comunicazioni di massa; altrettanto può dirsi per il lavoro centrato sull’esperienza simbolica nella costruzione del significato socioculturale attraverso i media.
In ogni caso non può negarsi, secondo Escarpit (1977), che il concetto "di massa" vada rapidamente dissolvendosi per essere "sostituito" dalla immagine più operativa di una intricata rete di canali comunicativi da cui emergono sempre nuove identità di gruppo con i corrispondenti modelli di comportamento ed equilibri di influenze. A giudizio di Corner (1998) tale "sostituzione" non è necessaria, negli studi sulla comunicazione, tranne nell’uso della nozione "le masse" che comporta un inaccettabile slittamento dall’aggettivale al sostantivo. Più che una sostituzione appare opportuna una "ridefinizione".
Molti studiosi hanno definito e trattato la mass communication in modo indipendente da altre concezioni della m. Uno sforzo ridefinitorio è ad esempio quello di G. Gerbner(1967), per il quale "mass communication è la produzione-distribuzione tecnologicamente e istituzionalmente di massa del più condiviso flusso di messaggi pubblici nelle società industriali". Nel riferirsi ai "sistemi produttivi di massa" Gerbner sposta l’impiego dell’aggettivale sul sistema piuttosto che sull’audience, il che differenzia in maniera rilevante anche la comunicazione di m. dalla cultura di m., nozione quest’ultima meno facilmente accettabile in termini di processo. D’altronde non sembra dimenticata la lezione di P. T. Lazarsfeld (Personal influence, 1955) se ancor oggi la comunicazione di m. è ricevuta individualmente da persone che negoziano i suoi significati entro un complesso di relazioni sociali e interpersonali. Per Gerbner una delle caratteristiche nodali della comunicazione di m. è appunto il "paradosso" tra le vaste reti produttive e distributive e le ormai consuete forme individualizzate di ricezione. E le nuove tecnologie, oggi, non soltanto estendono le reti di comunicazione o aggiungono strumenti per una sempre più rapida distribuzione, ma altresì mutano radicalmente l’esperienza mediatica. Questo rimanendo sempre nel territorio dei media tradizionali. Perché il territorio delle loro convergenze con l’informatica e le telecomunicazioni, della multimedialità, dei media personali e mobili, dell’interattività e dei new media è ormai differente e richiede un altro discorso. (Comunicazione; Ricezione)

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Come citare questa voce
Gagliardi Carlo , Massa, in Franco LEVER - Pier Cesare RIVOLTELLA - Adriano ZANACCHI (edd.), La comunicazione. Dizionario di scienze e tecniche, www.lacomunicazione.it (28/03/2024).
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