Moda e comunicazione

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Copertina di Vogue dedicata a Michelle Obama. Vogue è considerata la rivista di moda più autorevole, fondata da Arthur B. Turnure nel 1892.

1. Definizione

La parola moda, nella lingua italiana, comprende molteplici significati, a loro volta raggruppabili in tre distinte accezioni.

1.1. Vestiti e acconciature.
Con la prima accezione, per moda s’intende quella foggia di vestiti e acconciature che è legata a un periodo storico e al gusto di una certa società; ad esempio, nella Francia settecentesca prima della rivoluzione erano di moda, presso la nobiltà, per uomini e donne, le parrucche dalle forme più bizzarre; nelle classi più abbienti, inoltre, i maschi portavano calzoni al ginocchio con calze di seta bianca, mentre i ceti popolari (per motivi sia pratici sia economici) avevano introdotto l’uso del pantalone lungo fino alla caviglia, che è rimasto più o meno tale sino ai nostri giorni. Un altro esempio più recente può riguardare la gioventù sessantottesca, ribelle e impegnata che, contestando il sistema della moda, con l’uso di capelli incolti e di abiti poco costosi, talvolta pratici o unisex (jeans, maglioni, giubbotti) aveva involontariamente introdotto o creato uno stile poi imitato anche dagli altri ragazzi non necessariamente coinvolti nelle lotte politico-ideologiche o addirittura copiato dalle maggiori firme del prêt-à-porter. Dunque in questi casi la m. è un fenomeno che concerne l’essere umano in quanto individuo e collettività in rapporto all’identità nazionale, anagrafica, sessuale, lavorativa, epocale, ecc.; ma è anche un fatto che coinvolge il mondo della comunicazione, soprattutto nel corso del Novecento, in cui si sono moltiplicati, in ambito mediologico, gli interessi nei suoi confronti, al punto che, come si sa, i mezzi dell’audiovisivo e soprattutto della carta stampata dedicano a essa sempre maggior importanza: si parla infatti di trasmissione, giornale, rivista, articolo, rubrica di moda o addirittura di Storia della Moda quale materia d’insegnamento in molte scuole di specializzazione in scienze della comunicazione. (Abbigliamento)

1.2. Esperienza professionale.
La seconda accezione indica la moda come un’area produttiva, racchiudendo un discorso sull’industria e sul commercio degli articoli di vestiario con la prevalenza di quelli femminili, connotando spesso anche il complesso dei capi di abbigliamento confezionati in serie, dove per esempio si distingue tra l’alta moda (la haute couture) e quella pronta (il casual) o si parla di un’attività che coinvolge i sarti e le modelle, le griffes e le sfilate, in un sistema di rappresentazione che negli ultimi tempi celebra se stesso in continuazione: in tal senso la moda è diventata una delle professioni meglio frequentate dall’universo massmediale (sino a farsi essa stessa evento mediatico), con una serie di inedite emergenze simboliche quali il divismo delle top models (Naomi Campbell, Claudia Schiffer, Cindy Crawford, Carla Bruni, Elle McPherson, ecc.) che sta sostituendo nell’ immaginario collettivo quello degli attori cinematografici o la spettacolarità delle passerelle influenzate o integrate sempre più da musica, teatro, video, arti figurative. Ma anche lo stilista è diventato una star: artista/comunicatore e al contempo taumaturgo, si chiami Ferré, Armani, Versace, Gaultier, Westwood, Lagerfeld, riesce a trasmettere un marchio d’autorialità tanto allo show in passerella nelle capitali del settore (Parigi, Milano, New York) talvolta con la vetrina di celebri istituzioni museali, quanto alla firma estesa al di là dell’abbigliamento puro e semplice (cosmetici, profumi, accessori, arredo domestico, ecc.).

1.3. Stile di vita.
La terza accezione concerne la moda intesa come modo, stile di vita (Cultura): un’usanza del momento, tanto effimera quanto duratura, che coinvolge anche il comportamento e le abitudini dei gruppi sociali nei vari ambiti del sapere umano, al punto che si parla, ad esempio, di moda letteraria, culturale, politica: gli esempi in questi casi sono infiniti, poiché si può ricordare che per i giovani negli anni Settanta era di moda essere (o fingere di essere) di sinistra, come per quelli del decennio successivo proclamarsi di destra; o che per gli artisti d’estrazione colta in cerca di successo o scandalo è sempre di moda l’attacco alle istituzioni paludate, alle teorie classiche, ai concetti tradizionali. Più banalmente, per il pubblico dei lettori di libri si è parlato di moda della letteratura mitteleuropea negli anni Ottanta o dei volumi a mille lire in tempi più recenti; o ancora di moda della nouvelle cuisine nella gastronomia internazionale o di moda dell’ecologia o dell’ambiente nei programmi di quasi tutti i partiti politici, senza che nulla poi venisse concretamente realizzato per combattere l’inquinamento.
La moda che riguarda un modus vivendi e che ha a sua volta notevoli ripercussioni spaziotemporali in ambito giovanile soprattutto per la globalità delle proprie manifestazioni (abbigliamento, ideologia, gusto estetico) è invece definita come sottocultura: questo genere di moda (identificabile storicamente con tendenze come hippies, punk, mod, rocker, grunge, rap, ecc.) – ben al di là del capriccio passeggero, ma in sintonia con un vero e proprio costume sociale, in quanto indica il rimescolarsi di esigenze genuine e spontanee con la pervasività dell’industria dello spettacolo – è da alcuni decenni oggetto di analisi e riflessione da parte dei Cultural Studies sorti nelle maggiori università dei Paesi anglosassoni.

1.4. Triplice connotazione.
Ricapitolando, in italiano, come in molte altre lingue, il termine moda indica una serie di elementi notevolmente diversi, dai canoni periodicamente mutevoli dell’eleganza, all’identità effimera alla base della professione, sino ai fenomeni riguardanti le cosiddette apparenze dotate però di potere espressivo.
Già dal Rinascimento la moda, in questa triplice connotazione, alimenta un flusso continuo di discussioni morali, estetiche, religiose, filosofiche, che s’ingrandisce durante l’Ottocento e, in particolare negli ultimi decenni, grazie all’interesse di alcuni celebri scrittori (Mallarmé, Wilde, Proust, D’Annunzio) e che si sviluppa nel Novecento con una nutrita schiera di antropologi, sociologi, psicologi che la considerano un osservatorio privilegiato, onde teorizzarvi di volta in volta una modalità transitoria dello stile e del gusto, una creazione al contempo futile e coinvolgente, una riserva di novità e sorprese, una fonte energetica in grado di scuotere le tradizioni e di intaccare il costume civile e infine un testimone assoluto del comportamento umano in pubblico e in privato con la sottomissione dell’individuo alle norme collettive.
Sempre nell’Ottocento l’economista statunitense Thorstein B. Veblen (1857-1729) aveva posto in evidenza il concetto di "consumo vistoso" come espressione della volontà di "ostentazione abituale di beni allo scopo di manifestare e di rafforzare la propria posizione di prestigio" (Zanacchi, 1999).
Anche il recentissimo apporto delle scienze umane (etno-antropologia, psicanalisi, semiotica) è largamente tributario di queste teorizzazioni, pur rinnovandole sotto l’influenza di ulteriori progressi, come le ricerche attorno alla forma e al senso della moda, in cui quest’ultima è considerata come qualcosa che definisce un sistema sociale, sia nell’interazione in un certo numero di gruppi o attori sociali, sia nel porsi quale forma plastica o insieme significante.

2. La riflessione teorica

La moda è stata analizzata di volta in volta da Barthes, Lipovetsky, Dorfles e Volli con esiti incoraggianti anche nel dispiego di un rapporto con la teoria della comunicazione.

2.1. Il sistema della moda.
È a partire da quest’ultimo punto che è nato quello che a tutt’oggi resta uno dei saggi più emblematici su m. e c., il Sistema della moda (1967) di Roland Barthes. Lo studioso francese, attraverso un’analisi strutturale delle parole ricorrenti in un’annata di due riviste femminili, arriva ad avvalorare due ipotesi fondamentali: che i fatti di moda sono di natura simbolica (confermando così la tradizione sociologica) e che la significazione dei fatti di moda appare completamente solo quando la moda è parlata da un linguaggio (come quello scritto, mediale). L’analisi di Barthes si sviluppa da un lato sul codice vestimentario, per spiegare come i termini significanti utilizzati dalla moda si organizzino in un gioco di differenze e opposizioni per fondare il significato; dall’altro sul sistema retorico, ossia l’elaborazione ideologica a cui la moda è soggetta mediante gli enunciati che la riguardano. Questi ultimi mettono in rapporto l’abito e il mondo ("maglione per le fresche serate autunnali"), occultando l’arbitrarietà del rapporto tra questi fenomeni sotto l’apparenza della funzionalità. Gli altri enunciati si accontentano di additare le caratteristiche della moda, costituendo perciò la moda quale sistema chiuso, vuoto e autoriflessivo, semanticamente perfetto, dove il senso non è nient’altro che il significante medesimo. Così la descrizione, nelle riviste di moda, nasconde da un lato il significante sotto il funzionale, dall’altro l’arbitrario sotto il necessario, secondo una doppia razionalizzazione, che dà alla moda un fondamento di diritto naturale.

2.2. L’impero dell’effimero.
Un importante contributo alla disamina dei rapporti fra m.ec. arriva anche dal filosofo Gilles Lipovetsky che in L’impero dell’effimero (1989) colloca la moda delle società contemporanee tra il gioco futile e lo specchio di una nuova creatività. Egli constata dapprima che l’epoca attuale registra sia il dominio della tecnica e del controllo razionale sul mondo sia il primato della moda, ovvero una delle attività ludiche più irragionevoli: la moda intesa negativamente come qualcosa che oggi marca il trionfo incontrastato dell’effimero, alimenta il gusto capriccioso e febbrile per tutto ciò che muta in continuazione. Ma la moda, a differenza di quanto accadeva fino agli anni Settanta, non è più un lusso esclusivo per pochi, in quanto supera gli abituali confini del vestire per orientare produzione e consumo di oggetti e soprattutto per guidare pubblicità e mass media. Quindi da passatempo insulso o accessorio marginale, la moda giunge a rimodellare a propria immagine l’intera società, permeando di sé forme e contenuti dell’esistenza quotidiana. In tal senso per Lipovetsky si rivelano carenti o inadeguati i criteri che individuano nella moda il canale privilegiato delle distinzioni sociali o il luogo di competizioni mute e simboliche tra le classi stesse. La democrazia del frivolo progredisce tramite il suo contrario, facendo in modo che la sua incoscienza favorisca la coscienza e le sue follie il rispetto dei diritti e della libertà di tutti.

2.3. L’unica autentica costante.
In Italia gli apporti più consistenti allo studio delle relazioni fra m.ec. sono giunti da Gillo Dorfles e Ugo Volli. Il primo in Mode & modi (1979) e La moda della moda (1984) spiega come fra tanti cambiamenti oggi l’insieme delle mode (e dei modi) risulti l’unica autentica costante del mondo contemporaneo: moda intesa non solo come autorevole assunto socioeconomico, ma anche quale perfetto strumento di misurazione di motivazioni inconsce e palesi dell’intera umanità, quale fattore estendibile al contempo all’oggetto concreto e al pensiero astratto. La moda diventa altresì indicatore sensibile e manipolante di un gusto epocale a sua volta fondamento dei valori critici della storia. Proprio partendo dalla storia, attraverso un’osservazione spinta più verso la militanza che la teoria (misuratore delle oscillazioni estetiche, come è stato definito), Dorfles arriva a ricordare l’importanza della presenza maschile nelle mode antiche, con l’occasionale rovesciamento del richiamo sessuale dell’abbigliamento medesimo (il caso, ad esempio, dello stivale, dal guardaroba virile e militaresco al sofisticato ornamento femminile). La moda considerata come precipitato fugace dell’arte, da un lato si permette da sempre il lusso di fingersi immortale e di proporre il passato come futuro; dall’altro questo circolo vizioso sembra amare salti bruschi o piccole rivoluzioni. Attenuatesi in superficie le distinzioni sociali, oggi saltano antichi dualismi (il vestito della festa e quello feriale) e tenaci divieti (i colori nero e viola, rispettivamente osteggiati per lutto e superstizione). Tuttavia sarebbe un’ingenuità pensare alla completa liceità della moda: ad esempio la nudità dei nudisti non ha alcun rapporto con il nude look degli stilisti, i quali s’impegnano concettualmente a stravolgere o travestire il puro dato naturale. Dunque nella moda il corpo sia delle donne sia degli uomini è al contempo libero e costretto ad avere senso, attraverso una vasta tipologia di sproporzioni regolate e di spropositi giudiziosi. L’antidoto migliore agli eccessi della moda è infine, per Dorfles, il gioco con essa usando le sue stesse armi: anticipare le tendenze e obbedire agli ordini con un po’ di ritardo, essere osservanti del capriccio e saper ironizzare su ciò che passa per serio.

2.4. Gusto e tempo.
Ugo Volli, in Contro la moda (1990), da semiologo sostiene che il meccanismo della moda consta, a livello sociale, di un rapporto specifico tra gusto e tempo: ciò che oggi è di moda piace (deve piacere) a tutti, mentre ciò che era di moda prima, non piace più, cioè è andato fuori moda. Tuttavia anche quella attuale è per definizione moda effimera, nel senso che la prossima cancellerà quella odierna, come quest’ultima aveva già sepolto quella di ieri.
Per quanto concerne la comprensione del meccanismo che crea le mode, Volli si rifà a un’organica formulazione di George Simmel (1858-1918), che nel 1895 aveva definito la moda "l’oscillazione obbligatoria del gusto", descrivendo come ‘effetto goccia’ (trickle down) una complessa dinamica di imitazione/differenziazione. Si tratta di un modello dove al vertice della piramide sociale viene scelto un comportamento (ad esempio uno stile di vestiario) progressivamente adottato da settori sociali sempre più bassi. Una volta che la diffusione più o meno capillare toglie al comportamento la capacità di differenziare le classi egemoni, queste lo scartano, immettendone subito uno nuovo al suo posto.
Tale modello presupponeva una società fortemente gerarchizzata dove il potere di decisione coincideva con la visibilità, mentre in quella contemporanea il sistema della moda diventa assai più complesso grazie all’esistenza di professionisti che orientano il gusto (gli stilisti), all’influenza dei protagonisti mediali (ieri i miti del cinema, oggi le top models o i personaggi televisivi), alla stessa stratificazione sociale. Il risultato complessivo della situazione attuale è, per Volli, l’inflazione delle mode, la perdita di autorità del meccanismo di controllo sulle moda da parte del sistema produttivo e soprattutto l’affermarsi delle comunicazioni di massa come fattori di moda.

2.5. Moda di celluloide.
La moda è infine oggetto di studio da parte di alcuni mediologi che tentano un percorso inverso, esaminando come alcuni linguaggi (gli audiovisivi e più ancora il cinema) facciano proprie certe mode o addirittura le abbiamo lanciate dal grande schermo verso le masse popolari. Ad esempio originalissimo è il cammino che hanno compiuto Miro Silvera e Marilea Somarè con Moda di celluloide (1988). Il cinema, la donna, la sua immagine hanno dimostrato come la fortuna del film hollywoodiano classico sia durata finché esistette il divismo. La star, per dirla col sociologo Edgar Morin, è carica di suggestioni mitiche e possiede un’immagine che s’illumina di un alone magico e ancestrale. Questa aura di bellezza e di potere nasce dallo studio accurato e altamente professionale della fisiologia di ogni attrice, dall’analisi scientifica del volto e del corpo e della loro duplice potenzialità. Dunque alla costruzione dell’immagine ‘stellare’ contribuiscono nel cinema non solo truccatori e parrucchieri, ma soprattutto sarti e costumisti che riescono a creare ‘dal nulla’ volto e corpi indimenticabili. In tal senso Silvera e Somarè effettuano un viaggio nel corpo femminile, proponendo una lettura anatomica degli elementi vestimentiari della moda di celluloide, qualcosa che non è né casualhaute couture, bensì sigla ed emblema del grande immaginario collettivo.
Finora mancano invece studi accurati su come la televisione popolare abbia influenzato la moda quotidiana sia nel vestiario sia a livello di costume sociale: fin dalle telefonate in redazione, nel periodo veterotelevisivo, in cui gli spettatori chiedevano informazioni su dove acquistare gli abiti indossati da ospiti e presentatori, il piccolo schermo è sempre stato un punto di riferimento per diffondere la moda nella triplice accezione sopraccitata di vestito, esperienza professionale, stile di vita.

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Michelone Guido , Moda e comunicazione, in Franco LEVER - Pier Cesare RIVOLTELLA - Adriano ZANACCHI (edd.), La comunicazione. Dizionario di scienze e tecniche, www.lacomunicazione.it (29/03/2024).
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