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Autore: Piero Trupia
L’era della comunicazione nella quale viviamo ha fatto emergere il problema sociale, giuridico ed etico della tutela della p. o riservatezza sulla vita personale dei cittadini.
Storicamente la rivendicazione della p. è nata con i governi democratici, le cui costituzioni riconoscono il diritto del cittadino alla non ingerenza del potere politico nella sfera privata. In ambito anglosassone si è parlato del "diritto del cittadino di essere lasciato in pace" (the right to be let alone). Questa si è però rivelata un’impostazione individualista, frutto di un’ideologia liberale, che contrasta in primo luogo con le necessità amministrative dello ‘Stato del Benessere’ (welfare State) di documentarsi sulle reali condizioni dei candidati all’assistenza pubblica; in secondo luogo con la sicurezza pubblica, specie in un’era di confini sempre più permeabili; in terzo luogo con le esigenze di documentazione proprie del moderno marketing. Per contrasto la dottrina liberale prevedeva il diritto dei cittadini a essere informati sull’attività delle istituzioni secondo il modello del cosiddetto ‘governo aperto’ (open government). Questa dottrina ha avuto successo, talché si sono sempre più affermati i principi e le normative sulla cosiddetta trasparenza amministrativa.
Ai giorni nostri, e sempre nell’ambito dei regimi democratici, il problema della tutela della p. si pone con riferimento soprattutto alla sfera giudiziaria e all’attività dei mezzi di comunicazione. Circa la sfera giudiziaria, la soluzione risiede nelle garanzie dell’indagato previste nelle procedure di indagine e nella raccolta della documentazione necessaria per istruire il processo. Va segnalato che in tale ambito è sempre acceso il dibattito tra garantisti, che vogliono rafforzare la tutela dell’indagato, da considerare innocente fino a sentenza definitiva, ed efficientisti, i quali si preoccupano di non indebolire il potere giudiziario.
Ancora più acceso è il dibattito e più vivi sono i contrasti nella sfera della comunicazione di massa. Fino agli inizi degli anni Novanta la materia non era regolata se non marginalmente dalla Legge sulla stampa (Sistema della comunicazione). Una storia moderna della tutela della p. si può far risalire agli inizi del sec. XIX, quando, per le esigenze dei commerci, si ritenne necessario tutelare il ‘credito’ dei cittadini.
Dal credito, ovverosia dalla ‘buona reputazione’, dipendeva, oltre che l’onore personale, la possibilità di ottenere l’affidamento di capitali altrui, cioè il credito finanziario, per farlo fruttare nei commerci. Su tale sfondo la tutela della p. avanti lettera era una garanzia contro lo ‘screditamento’, espressione in uso al tempo, cioè contro la maldicenza interessata o velleitaria. Un problema tanto sentito da interessare Melchiorre Gioja e Gian Domenico Romagnosi, i quali pubblicarono un’opera che fece testo fino all’avvento della comunicazione di massa (Gioja, 1829). La nuova ampiezza della diffusione di notizia sulla persona privata connessa alle audience dei mass media ha avuto un primo effetto sull’ammontare dell’indennizzo riconosciuto dai tribunali al danneggiato attraverso mezzi di comunicazione di massa, di notizie riconosciute false, tendenziose, offensive, riservate o lesive dell’onore. I criteri di misurazione dell’indennizzo tengono oggi conto, più che della gravità dell’offesa, dell’ampiezza dell’audience, nonché della notorietà e del censo della persona offesa, attestandosi attorno a un multiplo da 2 a 10 del suo reddito annuo reale o virtuale. Una tale prassi ha avuto il suo avvio negli anni Trenta in USA, diffondendosi nei decenni successivi nel resto del mondo, in Italia e dovunque esiste un sistema di comunicazioni di massa. Per l’Italia, dopo alcune sentenze per reati di diffamazione degli anni Cinquanta, possiamo stabilire come data di avvio il 1984, quando si ebbe una prima sentenza della Cassazione per una causa di lesa reputazione a mezzo stampa di un uomo politico, con un risarcimento di settanta milioni. Una seconda sentenza del Tribunale di Roma dello stesso anno contribuì a delineare il quadro completo dei limiti che i mezzi di comunicazione di massa devono osservare per non incorrere nel reato di diffamazione a mezzo stampa e/o lesione della p.
Queste prime sentenze hanno suscitato viva preoccupazione nel mondo dei media, per le limitazioni che ne derivano al cosiddetto ‘diritto di informazione’ o ‘di cronaca’, ben al di là delle limitazioni previste dalla legge 3.02.1963, n. 69. Le sentenze citate, e le altre che sono seguite, hanno infatti stabilito che il lavoro informativo dell’operatore dei media è legittimo se l’informazione diffusa su persone è socialmente utile, è vera, con riferimento ai fatti esposti, e civile quanto allo stile adottato. In nessun caso l’operatore dei media può trincerarsi dietro l’inattendibilità delle fonti, essendo egli tenuto ad accertarne la serietà e validità. Circa la sfuggente qualifica di ‘civile’ per lo stile da adottare, la giurisprudenza si è spinta fino a non ritenere accettabile, rispetto al rigido requisito della verità dei fatti riportati, sia la veridicità che la verosimiglianza di essi. Con il che, si è fatto osservare da parte del mondo giornalistico, i giornali diventerebbero una copia della Gazzetta Ufficiale. Un’ulteriore svolta si è avuta a partire dagli anni Settanta con la diffusione delle banche dati (Database), adottate sia nel lavoro giornalistico sia nell’attività commerciale. Non soltanto le notizie diffuse, ma anche quelle raccolte a archiviate sulle persone sono suscettibili di censura giudiziaria, se frutto di intrusione illegittima nella sfera privata o p. Unica eccezione al riguardo è quella delle personalità di ampia rinomanza, le quali non possono rivendicare un diritto pieno alla p., in quanto sul suo contrario, la rinomanza, hanno impostato la loro vita professionale e quotidiana.
Il problema della tutela della p. è tornato d’attualità con due iniziative di regolamentazione, una della Commissione Europea e una del Parlamento Italiano.
L’iniziativa europea sviluppa in senso più restrittivo e vincolante la Convenzione del Consiglio d’Europa del 1981. In questa già si affermava che eventuali deroghe al principio della tutela della p. sono ammissibili solo se limitate alle esigenze della protezione dei valori fondamentali di una società democratica. Non quindi il generico e tradizionale concetto di ordine pubblico. È invece considerata ‘valore fondamentale’ la libertà di stampa e di informazione. D’altro canto, l’articolo 21, 2° comma della nostra Costituzione afferma: "la stampa [e naturalmente anche l’informazione via etere] non può essere assoggettata ad autorizzazioni o censure".
La Direttiva dell’Unione Europea, approvata il 13 aprile 1995, prevede che gli Stati membri dell’Unione, che dovranno recepire la Direttiva, possono introdurre quelle esenzioni o deroghe alla norma di tutela della p., che si rivelino necessarie per conciliare il diritto alla riservatezza della vita privata con il diritto alla libertà di espressione.
In particolare la Direttiva Europea richiede che nelle normative dei Paesi aderenti siano tenuti presenti i principi:
consenso o consenso informato. La persona su cui si raccolgono informazioni deve essere messa al corrente, non solo del fatto della raccolta, ma anche della destinazione e dell’uso delle informazioni raccolte;
diritto di accesso. L’interessato può, senza spese, prendere visione dei documenti su cui sono contenute informazioni che lo concernono.
Sono altresì prevedibili secondo la Direttiva deroghe alla tutela stretta della p. per ragioni di sicurezza nazionale e di ordine pubblico.
Il legislatore italiano si è largamente ispirato alla Direttiva Europea nella preparazione del disegno di legge 1901 del 19 gennaio 1995, trasformato poi dopo il parere di costituzionalità dell’apposita commissione parlamentare in due disegni di legge, 1901 e 1901 bis, confluiti nella legge n. 675 del 31 dicembre 1996. Principio ispiratore di tale normativa è la prevalenza del diritto alla p. rispetto a quello di informazione. Ciò ha provocato le proteste sia degli operatori dell’informazione sia dei gestori di banche-dati, soprattutto di quelle al servizio dell’attività commerciale ( Direct mail).
Appare evidente da queste preoccupazioni la necessità di contemperare la tutela della p. non solo con il diritto all’informazione, ma anche con il diritto alla libertà di commercio, il quale, con le moderne tecniche di marketing, sempre più si avvale di informazioni riguardanti la persona del consumatore. Si è anche fatto notare che il nuovo balzo tecnologico delle reti informatiche potrebbe essere compromesso da una legislazione troppo severa e da una applicazione burocratica del principio di tutela della p.
La legge n. 675/1996 ha istituito il Garante per la tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali, denominazione semplificata con il decreto legislativo n. 123 del 9 maggio 1997 nella formula più sintetica di Garante per la protezione dei dati personali. Si tratta di un organo collegiale (formato da quattro componenti eletti dalle Assemblee Parlamentari, i quali, dopo l’insediamento, provvedono all’elezione del Presidente e del Vice Presidente) che ha il compito di assicurare il rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali delle persone nel trattamento dei dati di carattere personale. Opera in piena autonomia e con indipendenza di giudizio e di valutazione.
Storicamente la rivendicazione della p. è nata con i governi democratici, le cui costituzioni riconoscono il diritto del cittadino alla non ingerenza del potere politico nella sfera privata. In ambito anglosassone si è parlato del "diritto del cittadino di essere lasciato in pace" (the right to be let alone). Questa si è però rivelata un’impostazione individualista, frutto di un’ideologia liberale, che contrasta in primo luogo con le necessità amministrative dello ‘Stato del Benessere’ (welfare State) di documentarsi sulle reali condizioni dei candidati all’assistenza pubblica; in secondo luogo con la sicurezza pubblica, specie in un’era di confini sempre più permeabili; in terzo luogo con le esigenze di documentazione proprie del moderno marketing. Per contrasto la dottrina liberale prevedeva il diritto dei cittadini a essere informati sull’attività delle istituzioni secondo il modello del cosiddetto ‘governo aperto’ (open government). Questa dottrina ha avuto successo, talché si sono sempre più affermati i principi e le normative sulla cosiddetta trasparenza amministrativa.
Ai giorni nostri, e sempre nell’ambito dei regimi democratici, il problema della tutela della p. si pone con riferimento soprattutto alla sfera giudiziaria e all’attività dei mezzi di comunicazione. Circa la sfera giudiziaria, la soluzione risiede nelle garanzie dell’indagato previste nelle procedure di indagine e nella raccolta della documentazione necessaria per istruire il processo. Va segnalato che in tale ambito è sempre acceso il dibattito tra garantisti, che vogliono rafforzare la tutela dell’indagato, da considerare innocente fino a sentenza definitiva, ed efficientisti, i quali si preoccupano di non indebolire il potere giudiziario.
Ancora più acceso è il dibattito e più vivi sono i contrasti nella sfera della comunicazione di massa. Fino agli inizi degli anni Novanta la materia non era regolata se non marginalmente dalla Legge sulla stampa (Sistema della comunicazione). Una storia moderna della tutela della p. si può far risalire agli inizi del sec. XIX, quando, per le esigenze dei commerci, si ritenne necessario tutelare il ‘credito’ dei cittadini.
Dal credito, ovverosia dalla ‘buona reputazione’, dipendeva, oltre che l’onore personale, la possibilità di ottenere l’affidamento di capitali altrui, cioè il credito finanziario, per farlo fruttare nei commerci. Su tale sfondo la tutela della p. avanti lettera era una garanzia contro lo ‘screditamento’, espressione in uso al tempo, cioè contro la maldicenza interessata o velleitaria. Un problema tanto sentito da interessare Melchiorre Gioja e Gian Domenico Romagnosi, i quali pubblicarono un’opera che fece testo fino all’avvento della comunicazione di massa (Gioja, 1829). La nuova ampiezza della diffusione di notizia sulla persona privata connessa alle audience dei mass media ha avuto un primo effetto sull’ammontare dell’indennizzo riconosciuto dai tribunali al danneggiato attraverso mezzi di comunicazione di massa, di notizie riconosciute false, tendenziose, offensive, riservate o lesive dell’onore. I criteri di misurazione dell’indennizzo tengono oggi conto, più che della gravità dell’offesa, dell’ampiezza dell’audience, nonché della notorietà e del censo della persona offesa, attestandosi attorno a un multiplo da 2 a 10 del suo reddito annuo reale o virtuale. Una tale prassi ha avuto il suo avvio negli anni Trenta in USA, diffondendosi nei decenni successivi nel resto del mondo, in Italia e dovunque esiste un sistema di comunicazioni di massa. Per l’Italia, dopo alcune sentenze per reati di diffamazione degli anni Cinquanta, possiamo stabilire come data di avvio il 1984, quando si ebbe una prima sentenza della Cassazione per una causa di lesa reputazione a mezzo stampa di un uomo politico, con un risarcimento di settanta milioni. Una seconda sentenza del Tribunale di Roma dello stesso anno contribuì a delineare il quadro completo dei limiti che i mezzi di comunicazione di massa devono osservare per non incorrere nel reato di diffamazione a mezzo stampa e/o lesione della p.
Queste prime sentenze hanno suscitato viva preoccupazione nel mondo dei media, per le limitazioni che ne derivano al cosiddetto ‘diritto di informazione’ o ‘di cronaca’, ben al di là delle limitazioni previste dalla legge 3.02.1963, n. 69. Le sentenze citate, e le altre che sono seguite, hanno infatti stabilito che il lavoro informativo dell’operatore dei media è legittimo se l’informazione diffusa su persone è socialmente utile, è vera, con riferimento ai fatti esposti, e civile quanto allo stile adottato. In nessun caso l’operatore dei media può trincerarsi dietro l’inattendibilità delle fonti, essendo egli tenuto ad accertarne la serietà e validità. Circa la sfuggente qualifica di ‘civile’ per lo stile da adottare, la giurisprudenza si è spinta fino a non ritenere accettabile, rispetto al rigido requisito della verità dei fatti riportati, sia la veridicità che la verosimiglianza di essi. Con il che, si è fatto osservare da parte del mondo giornalistico, i giornali diventerebbero una copia della Gazzetta Ufficiale. Un’ulteriore svolta si è avuta a partire dagli anni Settanta con la diffusione delle banche dati (Database), adottate sia nel lavoro giornalistico sia nell’attività commerciale. Non soltanto le notizie diffuse, ma anche quelle raccolte a archiviate sulle persone sono suscettibili di censura giudiziaria, se frutto di intrusione illegittima nella sfera privata o p. Unica eccezione al riguardo è quella delle personalità di ampia rinomanza, le quali non possono rivendicare un diritto pieno alla p., in quanto sul suo contrario, la rinomanza, hanno impostato la loro vita professionale e quotidiana.
Il problema della tutela della p. è tornato d’attualità con due iniziative di regolamentazione, una della Commissione Europea e una del Parlamento Italiano.
L’iniziativa europea sviluppa in senso più restrittivo e vincolante la Convenzione del Consiglio d’Europa del 1981. In questa già si affermava che eventuali deroghe al principio della tutela della p. sono ammissibili solo se limitate alle esigenze della protezione dei valori fondamentali di una società democratica. Non quindi il generico e tradizionale concetto di ordine pubblico. È invece considerata ‘valore fondamentale’ la libertà di stampa e di informazione. D’altro canto, l’articolo 21, 2° comma della nostra Costituzione afferma: "la stampa [e naturalmente anche l’informazione via etere] non può essere assoggettata ad autorizzazioni o censure".
La Direttiva dell’Unione Europea, approvata il 13 aprile 1995, prevede che gli Stati membri dell’Unione, che dovranno recepire la Direttiva, possono introdurre quelle esenzioni o deroghe alla norma di tutela della p., che si rivelino necessarie per conciliare il diritto alla riservatezza della vita privata con il diritto alla libertà di espressione.
In particolare la Direttiva Europea richiede che nelle normative dei Paesi aderenti siano tenuti presenti i principi:
consenso o consenso informato. La persona su cui si raccolgono informazioni deve essere messa al corrente, non solo del fatto della raccolta, ma anche della destinazione e dell’uso delle informazioni raccolte;
diritto di accesso. L’interessato può, senza spese, prendere visione dei documenti su cui sono contenute informazioni che lo concernono.
Sono altresì prevedibili secondo la Direttiva deroghe alla tutela stretta della p. per ragioni di sicurezza nazionale e di ordine pubblico.
Il legislatore italiano si è largamente ispirato alla Direttiva Europea nella preparazione del disegno di legge 1901 del 19 gennaio 1995, trasformato poi dopo il parere di costituzionalità dell’apposita commissione parlamentare in due disegni di legge, 1901 e 1901 bis, confluiti nella legge n. 675 del 31 dicembre 1996. Principio ispiratore di tale normativa è la prevalenza del diritto alla p. rispetto a quello di informazione. Ciò ha provocato le proteste sia degli operatori dell’informazione sia dei gestori di banche-dati, soprattutto di quelle al servizio dell’attività commerciale ( Direct mail).
Appare evidente da queste preoccupazioni la necessità di contemperare la tutela della p. non solo con il diritto all’informazione, ma anche con il diritto alla libertà di commercio, il quale, con le moderne tecniche di marketing, sempre più si avvale di informazioni riguardanti la persona del consumatore. Si è anche fatto notare che il nuovo balzo tecnologico delle reti informatiche potrebbe essere compromesso da una legislazione troppo severa e da una applicazione burocratica del principio di tutela della p.
La legge n. 675/1996 ha istituito il Garante per la tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali, denominazione semplificata con il decreto legislativo n. 123 del 9 maggio 1997 nella formula più sintetica di Garante per la protezione dei dati personali. Si tratta di un organo collegiale (formato da quattro componenti eletti dalle Assemblee Parlamentari, i quali, dopo l’insediamento, provvedono all’elezione del Presidente e del Vice Presidente) che ha il compito di assicurare il rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali delle persone nel trattamento dei dati di carattere personale. Opera in piena autonomia e con indipendenza di giudizio e di valutazione.
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Bibliografia
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Come citare questa voce
Trupia Piero , Privacy, in Franco LEVER - Pier Cesare RIVOLTELLA - Adriano ZANACCHI (edd.), La comunicazione. Dizionario di scienze e tecniche, www.lacomunicazione.it (06/12/2024).
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