Silenzio

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Autore: Aneta Kania

1. Definizione e tipologie

Il primo degli assiomi sulla comunicazione elencati da Watzlawick e colleghi nel celebre libro Pragmatica della comunicazione umana (1971) è l’affermazione che il comportamento umano implica sempre una dimensione comunicativa: se ne deduce che l’essere umano non può non-comunicare. Ogni sua azione è infatti espressione di una determinata intenzionalità e così anche la rinuncia a prendere la parola o a compiere un gesto – il silenzio appunto – è uno degli elementi dell’interazione comunicativa come lo sono la parola, il suono, il gesto e, come tale, può essere oggetto di analisi.
Il s. è una forma espressiva multidimensionale, presente a diversi livelli e momenti della vita umana, con funzioni differenti. Nella percezione comune esso contiene in sé qualcosa della natura del simbolo, che non rimanda solo alla realtà immediatamente significata, ma rinvia insieme a qualcosa d’altro.
Per la varietà degli aspetti implicati, risulta difficile l’organizzazione di un discorso esaustivo sul s., così come sembra impossibile una tipologia unica e soddisfacente per tutti, come attesta il grande numero dei tentativi fatti, anche se le diverse tipologie risultano utili proprio perché ciascuna di esse è un’attenta analisi – da un punto di vista originale – della vasta gamma di manifestazioni del s. Ecco alcuni esempi di tipologie tratti da scienze diverse.
– Per quanto riguarda la filosofia del linguaggio si può ricordare la tipologia circolare di A. Jacob (1980). Nel parlare si incontrano due modalità di silenzio contrapposte: ascoltare il mondo/ascoltare l’altro e capire/capirsi; vi corrispondono i silenzi di apertura (per poter parlare bisogna saper ascoltare sia il mondo esterno sia se stessi) e i silenzi di chiusura (come risultato dell’ascolto del mondo e dell’altro, come esito del parlare con l’altro o della comprensione del proprio sé).
– Il s. nella retorica è studiato da P. Valesio (1986). Al s. vuoto, che significa assenza di comunicazione e contrasta con le forme del dire (il s. come interruzione, frattura, distacco), viene contrapposto il s. come pienezza che acquista il suo significato dall’essere inserito come parte del discorso (è un non-detto che allude a quanto potrebbe essere detto, un prolungare il discorso in altro modo).
– Nell’ambito della psicologia sociale Muriel Saville-Troike (Tannen e Saville-Troike, 1985) studia i s. istituzionali (spaziali, rituali, volontari, tabù), i s. di gruppo (situazionali, normalizzatori, simbolici), i s. individuali (interattivi – socio-contestuali, linguistici; non interattivi – contemplativi e meditativi, inattivi).
– Il semiologo Caprettini (1988), richiamandosi al modello di comunicazione proposto da Jakobson, per studiare la pregnanza comunicativa del s. verifica se esso assolva a tutte sei le funzioni del linguaggio: nel s. dell’emittente verifica la funzione emotiva; la funzione conativa nel s. del destinatario; il s. del contesto ha una funzione referenziale; quello del messaggio la funzione poetica; il s. del canale è inteso espletare la funzione fàtica; il s. del codice la funzione metalinguistica. Questa ultima tipologia si rivela la più adatta per analizzare il s. come agire comunicativo. Come evidenzia Caprettini, essa fa riflettere sulla struttura comunicativa e sulle molteplici manifestazioni e funzioni del s.: sui diversi piani dell’emittente, del destinatario, del messaggio, del canale, del contesto e del codice.

2. Il s. nel processo di comunicazione

2.1. Il s. e l’emittente.
Il s. riferito all’emittente concentra l’attenzione sulla sua figura (funzione emotiva): è il s. eloquente di chi tace. Come tale apre lo spunto per una riflessione sul ruolo del s. nella dimensione interiore dell’uomo.
La persona, nella sua struttura ontologica, cerca di comunicare il suo modo – proprio e unico – di esistere. Attraverso la parola, il comportamento, le azioni, i prodotti della cultura ecc., l’essere umano riesce però a comunicare solo la superficie di sé, sperimentando l’impossibilità dell’espressione totale a cui aspira. L’interiorità – che secondo Georges Gusdorf (1970) non è un’idea o una cosa, ma l’atteggiamento profondo proprio di ciascuna persona, l’intenzione di tutta una vita – è il fondamento di qualsiasi altra espressione, pur rimanendo inespressa. In questa ottica la ricerca dell’identità personale coincide con l’ascolto del proprio messaggio interiore; il pensiero, con la sua struttura di dialogo silenzioso (il pensiero – per Platone - è un dialogo senza voce tra me e me), è in ascolto della profondità dell’io. Come frutto di questo ascolto, il pensiero diventa capace di valutare e di giudicare il reale, dal momento che suo fine è la ricerca del significato e la capacità di percepire la realtà sotto l’aspetto del senso. L’ascolto interiore, nella forma più intensa, si concretizza solo nell’attenzione e nel raccoglimento.
L’attenzione è disporsi a conoscere, è il momento del rivolgersi consapevole verso l’oggetto della conoscenza. Presuppone una momentanea sospensione delle altre attività del pensiero e una concentrazione sull’oggetto che si presenta alla coscienza. "Nel s. è insito un meraviglioso potere di osservazione, di chiarificazione, di purificazione, di concentrazione sulle cose essenziali." (Bonhoeffer, 1978).
Il raccoglimento coinvolge sia il cuore dell’uomo (il mondo dei sentimenti e degli affetti) sia la sua mente (la ragione, l’intelligenza): è ricerca dell’unità tra cuore e mente. L’ordine, la chiarezza e l’approfondimento dell’esistenza ne sono il risultato.
Il s. è anche il linguaggio privilegiato del sacro. Nell’incontro con il ‘Tu assoluto’ i mistici avvertono i limiti delle categorie linguistiche e concettuali e si aprono a due forme di s.: l’ascolto del s. (inteso come il s. di Dio) e l’ascolto di Dio nel s. interiore dell’uomo, che comprende la mente, i sentimenti, l’immaginazione e tutte le altre facoltà umane.

2.2. Il s. e il destinatario.
La figura del destinatario apre la riflessione alla prospettiva dell’interazione comunicativa, di cui l’unità minima è il dialogo, nella quale si sollecita l’incontro e la collaborazione aperta dell’altro. Il s. nella funzione conativa del dialogo ha principalmente due funzioni: quella di creare lo spazio in cui il dialogo possa esistere e quella dell’ascolto. Nella prima costituisce lo spazio quasi fisico, in cui avviene la comprensione degli interlocutori (non si può capire un discorso senza pause e senza vuoti). Nello spazio dell’esistenza del dialogo, il s. può diventare il veicolo di una comunicazione non verbale, che porta all’interlocutore una molteplicità di significati. Esprime i più svariati stati d’animo, che vengono poi interpretati dall’interlocutore. In questo modo diventa un ponte di unione tra due coscienze in comunicazione.
Il s. dell’ascolto è un atto intenzionale: un voler sentire in modo pienamente cosciente. È presupposto come condizione sine qua non dell’ascolto. La prima condizione è quella ‘fisica’, l’assenza della parola presso colui che ascolta. L’altra è interiore: nel s. si cerca di far coincidere la capacità del parlare con la capacità dell’ascolto, si acquista il raccoglimento necessario in questo impegno. Il s. incide anche sul parlare dell’altro: un ascolto intenso costringe il parlante a controllare la propria produzione verbale.

2.3. Il s. e il messaggio.
La funzione poetica identifica il s. con il messaggio e concentra su di esso. Questo s. diventa lo spunto per considerare la relazione tra il s. e la parola, il loro strutturarsi e le possibili interdipendenze all’interno del linguaggio. Il s. è un momento preparatorio all’apparizione della parola, sia in senso fisico, quando favorisce la sua comprensibilità (pause e interruzioni), sia come s. interiore, momento preparatorio alla manifestazione della verità della parola. D’altro canto il s. può raggiungere la sua pienezza quando ricava senso e valore dalla parola, quando – attingendo alla parola appena pronunciata – si carica di un significato, si fa portatore di senso e diventa un elemento dell’interazione comunicativa.
Il s. fa riflettere sui limiti del linguaggio: il comunicare umano, infatti, non ne può fare a meno tutte le volte che va oltre la pratica ordinaria e quotidiana. Se nel linguaggio della scienza la forma controlla e vince il senso (non rimane nulla di non detto), nel linguaggio dell’arte invece il senso supera la forma e si appella all’indicibilità: in modo simile operano tutti i linguaggi dove il s. viene a riempire le lacune della parola, incapace di sopperire ai bisogni espressivi di alcune esperienze umane e ai limiti delle capacità comunicative dell’uomo stesso. Queste sono le caratteristiche che hanno i giochi di parole e gli scherzi (con essi il linguaggio infantile e i linguaggi slang), la poesia, il linguaggio amoroso, il linguaggio della filosofia, del simbolico e della religione.

2.4. Il s. e il canale.
Come intervento a valenza fàtica il s. assicura la continuità della comunicazione, in quanto precondizione della corretta trasmissione e ricezione del messaggio. Proprio perché ‘assenza di rumore’, consente di percepire la pienezza e i dettagli di una situazione: ‘ascoltare in s.’ per poter meglio capire, ‘vedere in s.’ per poter meglio osservare, ‘gustare in s.’ ecc.
Il s. come pausa (le pause interne al discorso, per es. le esitazioni; le pause di ‘cambiamento di turno’ durante il dialogo) è la condizione di comprensibilità della comunicazione verbale, costituisce il sistema regolatore nelle dinamiche della comunicazione tra le persone, sta alla base del ritmo della conversazione, fa parte del particolare codice dei tratti vocali non verbali, è uno dei fattori per il riconoscimento delle emozioni nella comunicazione.
Nel caso della comunicazione non verbale il s. è l’espressione dell’attenzione e, come tale, è condizione necessaria al passaggio delle informazioni (per es. la comunicazione gestuale, paralinguistica, prossemica) e si identifica con la ricchezza di questo tipo di comunicazione. Come nel caso di due persone che hanno vissuto a lungo insieme e – nel silenzio – stanno una in ascolto dell’altra: il s. umano non è vuoto, è sempre accompagnato da qualche modificazione, per quanto microscopica, del gesto o del volto o degli occhi.

2.5. Il s. e il contesto.
"Il s. del contesto (a funzione referenziale, secondo il modello di Jakobson) è, almeno da un punto di vista pragmatico, il vero silenzio. Il vero silenzio che si ottiene non cancellando il soggetto, non cancellando l’oggetto del discorso, ma rimovendo il contesto, l’intorno della parola" (Caprettini, 1988). Non c’è più un riferimento alle circostanze, all’ambiente, non c’è un hic et nunc del discorso. Questo può essere il s. di chi rifiuta un mondo che teme, oppure il s. di chi rinvia all’ignoto e al mistero; il s. della preghiera, ma anche di una lingua che abbia una funzione magica, indipendente dallo spazio e dal tempo.

2.6. Il s. e il codice.
La funzione metalinguistica del s. ha due poli di indagine: il s. del codice e il s. come codice. Il s. del codice significa una comunicazione del tutto sbagliata che non raggiunge il suo fine. Se non è attivo il codice, non esiste la possibilità di comprensione. Si arriva alla chiacchiera nel senso heideggeriano, alla mancanza del senso che non può più esser assicurato dal codice perché esaurito.
Il s. come codice è generalmente conosciuto nella società. Viene associato agli elementi di altri sistemi segnici, come quello della comunicazione non verbale, oppure ai significati provenienti da un concreto sistema culturale. Come tutti gli altri codici si è formato lungo i secoli, raccogliendo in sé i concetti di base riguardanti la struttura e le relazioni fondamentali della vita sociale di un dato gruppo, di un dato ambiente, in concrete condizioni di vita. Probabilmente appartiene ai codici più primitivi, nel senso di precedenza temporale, dell’interazione sociale umana.
Il codice del s. legato alla comunicazione non verbale è presente dappertutto dove si realizza lo scambio informativo, consapevole o meno, tra le persone: a livello prossemico (il s. vissuto come normale quando in strada si incrocia una persona; vissuto come disagio quando si è con altri in ascensore), a livello paralinguistico (nella conversazione telefonica), nell’uso dei diversi codici della gestualità e dell’abbigliamento allo scopo di una adeguata presentazione della propria persona, nella creazione di alcuni stereotipi riguardanti il carattere delle persone e degli altri gruppi di cultura diversa, come un indice a sé stante della struttura sociale, in particolare della distribuzione del potere (la parola è di chi comanda, il s. di chi serve).

Dalla rapida panoramica fatta risulta chiaro che il s. gioca un ruolo assai significativo in molti momenti della vita umana, in tutte le forme di dialogo e di scambio (si potrebbero richiamare in particolare gli scambi rituali che Goffman ci ha insegnato a riconoscere). La capacità di gestire questi momenti implica una competenza comunicativa molto elevata, grazie alla quale il singolo stabilisce rapporti armonici con il gruppo e – d’altra parte – evita penalizzazioni anche assai pesanti. Come è evidente, non si tratta di una competenza facilmente acquisibile. L’educazione e la scuola, dunque, non dovrebbero farsi carico di insegnare soltanto la parola, ma anche il s.

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Come citare questa voce
Kania Aneta , Silenzio, in Franco LEVER - Pier Cesare RIVOLTELLA - Adriano ZANACCHI (edd.), La comunicazione. Dizionario di scienze e tecniche, www.lacomunicazione.it (07/12/2024).
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