Teologia e comunicazione

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Anche se il rapporto tra teologia e comunicazione può articolarsi in molti percorsi, non tutti portano necessariamente a una teologia della comunicazione. Individuiamo prima di tutto – per scartarli – quelli che non intraprendono questo cammino.
a) Un primo caso si ha quando la teologia prende a prestito pezzi dei saperi contemporanei della comunicazione per mettersi al passo coi tempi: di solito però rimane fondamentalmente immutata. Nessuna prospettiva nuova ne modifica la struttura classica, nessuna domanda inedita porta a nuovi significati.
b) Quando la teologia rilegge la sua storia, vi può ritrovare delle tematiche che riguardano la comunicazione: l’idea del logos dei Padri Greci, il pensiero di Tertulliano sui sacramenti e gli spettacoli, il lungo confronto di Agostino con la retorica classica, la ricchezza semantica del communicare in Tommaso d’Aquino, la comunicazione indiretta in Kierkegaard, la categoria dell’autocomunicazione divina in Rahner... La teologia dispone dunque di fonti proprie per affrontare la questione della comunicazione. Tuttavia i materiali riportati dall’indagine storica sono troppo dispersi per poter offrire una prospettiva unica e coerente.
c) Anche la teologia può sentirsi obbligata a comunicare meglio. Quando la si vuole comunicante, la sua pratica cambia. Essa si impone di interagire con altri universi (ecclesiali, culturali...) al di fuori della sua ristretta cerchia di esperti. Adotta un linguaggio più suggestivo che erudito, privilegiando gli aspetti narrativi rispetto a quelli discorsivi. Sceglie i mezzi di diffusione di massa e una pedagogia meno elitaria. Tuttavia, tradurre la teologia in forme comunicanti non significa necessariamente adottare la comunicazione come categoria centrale nell’elaborazione del pensiero teologico.
Nel periodo immediatamente dopo il Concilio Vaticano II sono circolati molti scritti che avevano l’ambizione di dare inizio a una ‘teologia dei media’ o a una ‘teologia delle comunicazioni sociali’. Rivelatori di un reale bisogno, questi tentativi non costituiscono però una risposta soddisfacente. Per prendere corpo, una teologia della comunicazione deve rispondere, a nostro avviso, a una serie di esigenze che qui vorremmo indicare brevemente, con la cautela di chi sa di tracciare un cammino in territori non ancora cartografati.

1. Lo statuto di una teologia della comunicazione

1) Ascoltare, testimoniare, incontrarsi, condividere, riunirsi, celebrare: questi atti appartengono tutti all’esperienza cristiana più comune. Essi assumono però una luce nuova grazie alle conoscenze contemporanee sulla comunicazione.
Ciò su cui si fonda una teologia della comunicazione è l’evento cristiano in quanto tale che implica sempre una relazione – a prescindere dal modo in cui essa si realizza – tra Dio e gli esseri umani, tra i membri di una comunità cristiana e tra le comunità cristiane e il resto dell’umanità. L’evento cristiano – sia a livello di fede sia di appartenenza – costituisce il luogo dove si intrecciano delle comunicazioni. Il cristianesimo è comunicazione, anche se la categoria usuale ‘comunicazione’ non è sufficiente a definire le relazioni che si instaurano tra Dio e le persone o le comunità umane.
Si noti che questo fondamento della teologia della comunicazione può essere inteso in un senso più ampio, in quanto è proprio non solo dell’esperienza cristiana ma di tutte le esperienze religiose, anche se la teologia della comunicazione trova al momento le sue espressioni più ricche ed elaborate nel contesto del cristianesimo occidentale. Ma anche altre tradizioni – il buddismo, per esempio, nelle sue comunità europee e americane, o i movimenti legati alla nebulosa mistico-esoterica – cominciano a percepire le questioni e le suggestioni che il fenomeno della comunicazione rivolge ai propri fedeli.
A partire da questo nucleo religioso, la teologia della comunicazione si rivolge anche a chi opera e pensa nella vita sociale non religiosa dove circolano messaggi e si stabiliscono connessioni di ogni tipo.
2) In senso stretto, dunque, una teologia della comunicazione non è semplicemente una novità legata alle tecnologie contemporanee, una teologia dell’epoca del computer e del satellite, che succederebbe a quella dell’epoca dell’audiovisivo o della stampa. Il cristianesimo, nel corso della sua storia, si è spesso interrogato sulla lettura della Bibbia, sulla predicazione, sulla natura delle immagini, sui sacramenti (forme di passaggio dal visibile all’invisibile), sulle figure della vita ecclesiale (il ruolo dei ministri, l’esperienza conciliare), sulle modalità dell’iniziazione, sul rapporto con il potere politico... Queste forme di comunicazione specificamente cristiane hanno radici assai lontane, anche se non sempre sono state intese come tali.
Certamente la comunicazione viene regolarmente rimodellata dalla tecnologia disponibile in una data epoca. Da questo punto di vista una teologia della comunicazione attuale deve tenere conto con originalità delle rivoluzioni che hanno riconfigurato non solo gli strumenti e i sistemi di comunicazione, ma anche i loro usi e gli effetti. Una teologia della comunicazione richiede oggi una valutazione lucida delle nuove relazioni che si instaurano tra gli individui, i gruppi, i popoli, e una presa di coscienza critica degli effetti provocati da questa congiuntura. La teologia non può accontentarsi né di quel provvidenzialismo ingenuo né di quella visione apocalittica che caratterizzano troppi testi ufficiali della chiesa.
3) La teologia della comunicazione deve essere non solo contestuale (legata cioè a uno stato specifico della società), ma anche particolare in quanto cerca di considerare l’esperienza religiosa, e quella umana in genere, da un preciso punto di vista, quello della comunicazione. Più che alle cosiddette teologie delle ‘realtà terrestri" degli anni Sessanta (teologia del lavoro, della città, della pace), la teologia della comunicazione somiglia alle più recenti teologie ‘settoriali’, come la teologia politica tedesca o la teologia della liberazione latino-americana. La sua è una prospettiva ben definita che si rapporta al campo teologico globale in funzione del punto di vista adottato.
Il suo compito sarà quello di dimostrare di non rappresentare semplicemente un dato antropologico periferico, ma una dimensione fondamentale dell’esistenza degli individui e delle società, una categoria antropologica centrale. Dovrà dimostrare che il sapere contemporaneo si è dotato di griglie e di modelli più adeguati (di quanto non lo siano i propri) a rendere conto dei fenomeni della comunicazione e che si è costruito delle rappresentazioni – scientifiche e filosofiche – che una riflessione attenta può fare proprie.
Dovrà dimostrare che la comunicazione fornisce una porta d’ingresso pertinente a molti dei dibattiti attuali. Se la scelta iniziale di una teologia della comunicazione non si rivela a posteriori efficace e illuminante, tale teologia è priva di interesse.
4) La presenza di griglie di lettura provenienti dal campo della comunicazione caratterizza già alcune discipline degli studi teologici e contribuisce al loro sviluppo. È così che l’esegesi biblica si interessa all’oralità, alla metafora, alla parabola e la sua teoria dei href=/voce.php?id=580>generi Semiotica) e l’analisi narrativa (href=/voce.php?id=852>Narratologia; href=/voce.php?id=853>Narrazione), il punto di vista della pragmatica. Quanto agli specialisti della sacramentaria e della liturgia, essi hanno arricchito notevolmente i loro concetti (segni e parabole, drammaturgia, ritualità, spazio fisico e sensoriale della celebrazione, ecc.) e precisato il loro pensiero attraverso una seria assunzione della comunicazione.

2. I campi della teologia della comunicazione

Se vogliamo tracciare una mappa di ciò che la teologia della comunicazione dovrebbe essere, specie nel mondo cristiano, possiamo distinguere quattro campi.
1) Innanzitutto, il campo dei rapporti tra il cristianesimo (come dottrina o come Chiese) e le culture nelle quali esso oggi si iscrive. È il campo teologico classico della missione o dell’evangelizzazione. La testimonianza e la proposta della fede evangelica dipendono globalmente dalla teologia pratica. Lo studio delle condizioni concrete dell’atto di fede e della sua credibilità dipendono dalla teologia fondamentale.
Qual è il contributo della teologia della comunicazione a questi interessi tipici della riflessione religiosa? Si tratta di una vera e propria sfida: cercare di percepire e interpretare questi diversi processi secondo il punto di vista della comunicazione e di trarre beneficio dai concetti e dalle problematiche sviluppate dalle scienze e dalle filosofie che studiano i fenomeni comunicativi.
Ci sembra fecondo rileggere i modi tradizionali della proposta della fede (testimonianza diretta o mediatizzata, catechesi, insegnamento e predicazione, riunioni e celebrazioni) a partire da concetti chiave come l’agire comunicativo (Habermas), la dialettica tra il medium e il messaggio (Õ McLuhan), le strategie delle relazioni pubbliche, l’attività di animazione delle campagne di opinione, l’ agenda setting.
Non si tratta certo di assimilare le pratiche evangeliche a pratiche anche molto diverse (quelle del commercio, dell’informazione o della pubblicità), ma di trarre beneficio dalle analisi originate da questi processi, per capire meglio ciò che il Vangelo ha in comune con essi e ciò che invece gli è proprio.
Questo esercizio provoca uno spostamento paradigmatico che costringe a rivedere le abituali routine di pensiero o di azione e a fare posto al Kairòs nella decisione pastorale.
Inoltre, se si guarda alla comunicazione con sufficiente attenzione, si scoprono al suo interno dati sociali ed elementi religiosi diversi da quelli presenti nel Vangelo. Tanto che l’evangelizzazione può essere considerata, all’occorrenza, come una delle forme del dialogo inter-religioso e che la presenza ecclesiale può manifestarsi come dialogo pubblico in seno a una società democratica.
2) Un’altra area della teologia della comunicazione si dedica al riesame delle rappresentazioni o delle credenze cristiane. Molti scritti recenti di teologia privilegiano questa via. In essi si parla della rivelazione, dell’Incarnazione e soprattutto della Trinità in termini di comunicazione. La Rivelazione è l’autocomunicazione di Dio. L’Incarnazione è l’alterità di Dio che s’iscrive nell’immanenza umana senza però rinunciare alla sua trascendenza: Cristo è nel mondo, ma non è del mondo. La Trinità è il mistero della comunicazione di Dio, quello della reciprocità tra il Padre e il Figlio resa possibile dallo Spirito Santo.
Al momento bisogna dire che questo lavoro teologico rimane piuttosto ambiguo. Certo ha il vantaggio di riformulare i misteri cristiani con il linguaggio culturale del presente e di contribuire a una sorta di apologia del cristianesimo. Ma qual è la novità maggiore derivante da questa operazione? Il trasferimento dei concetti della comunicazione nel campo della fede deve essere verificato, se vuole veramente essere qualcosa di diverso da una semplice opera di recupero o di metaforizzazione.
3) Un terzo campo della teologia della comunicazione è quello dell’ecclesiologia, intesa come riflessione sulla vita in comune dei cristiani. Già evidenziato dal Concilio Vaticano II, questo aspetto dell’esperienza cristiana, spesso messo in crisi anche dall’attualità, rappresenta un altro campo del pensiero cristiano dove le analisi e i modelli della comunicazione possono essere di aiuto. In questo caso si cerca di determinare la comunione cristiana dal punto di vista della comunicazione, di analizzare le forme di scambio tra i battezzati, di precisare i ruoli o le funzioni operanti all’interno del corpo ecclesiale, di indicare quali sono i diritti e le libertà delle persone, di esaminare la gestione dei conflitti e le possibilità di riconciliazione.
A questo proposito la distinzione classica è tra la comunicazione ad extra (verso il ‘mondo’, detta anche comunicazione pubblica delle Chiese cristiane) e la comunicazione ad intra (la comunicazione interna, ‘in famiglia’). A lungo, i responsabili ecclesiali hanno messo l’accento sul primo tipo di comunicazione, sull’annuncio pubblico, svalutando l’importanza dello scambio interno. In seguito ci si è accorti che gli insuccessi nella comunicazione domestica, tra gli uomini e le donne che si richiamano al messaggio evangelico, condizionano pesantemente la loro capacità collettiva di testimoniare questo messaggio nello spazio pubblico. Una delle acquisizioni maggiori della teologia della comunicazione, dal punto di vista dell’ecclesiologia, è proprio la scoperta del forte legame esistente tra comunicazione ad extra e comunicazione ad intra.
4) Vorremmo, infine, ricordare un quarto campo della teologia della comunicazione, un campo poco considerato e tuttavia di grande importanza. Si tratta dell’esperienza personale dei fedeli, così come si viene a creare nel mondo di comunicazione generalizzata di oggi.
Apparentemente non sembrerebbe esserci alcuna relazione con la comunicazione, in quanto ci troviamo in un terreno puramente individuale, l’emergenza del soggetto. Tuttavia, l’individualità di oggi è fortemente legata a un contesto, a un ambiente. Essere se stessi significa trovare e mantenere un posto all’interno di una molteplicità di reti, vuoi per negoziare delle relazioni con il sistema sociale, vuoi per prendere le distanze da esso e difendere il proprio spazio privato. La teologia della comunicazione, evitando ogni facile separazione tra il pubblico e il privato, ha il compito, dunque, di esaminare il modo in cui ciascun individuo afferma se stesso, sviluppa e difende la propria esperienza personale attraverso mille legami diversi con l’universo sociale e culturale cui appartiene.
In questa prospettiva, la teologia della comunicazione deve avere come obiettivo l’analisi della spiritualità concreta delle persone, del tono sereno o angosciato della confessione di fede e di appartenenza religiosa, dell’equilibrio di emozione e ragione nell’esperienza religiosa, delle ripercussioni della cultura mediatica sulle forme di adesione religiosa, di come i cristiani ricevono o rifiutano certe informazioni o regole, di come gli individui si identificano come cristiani e come membri di una Chiesa, di come ciascun membro della Chiesa può beneficiare di un minimo di iniziazione al mistero della fede e alle pratiche ecclesiali, ecc.

3. Teologia della comunicazione e pratiche comunicative

1) La teologia della comunicazione non si occupa soltanto della comunicazione religiosa o ecclesiale, intesa sia come evangelizzazione e testimonianza sia come comunione tra i componenti dei gruppi di fedeli. Il suo obiettivo è anche quello di contribuire a dare un senso alle forme secolari della comunicazione sociale, un senso antropologico, sociale e soprattutto spirituale (intendendo questo termine non come sinonimo di adesione a una qualche forma religiosa istituzionalizzata, ma come indicativo di un atteggiamento più fondamentale, accessibile in via di principio a chiunque). In altri termini, la teologia della comunicazione deve essere attenta alle Chiese ma anche al mondo, ai gruppi religiosi e alla società nel suo insieme.
I postulati che adotta sono tre: a) esiste verosimilmente una correlazione (anche se da verificare) tra i modi della comunicazione ecclesiale (ad intra e ad extra) e le forme della comunicazione sociale secolare; b) la comunicazione sociale aiuta a capire meglio la comunicazione ecclesiale e viceversa; c) la riflessione sulla comunicazione ecclesiale e il capitale di acquisizioni, di cui essa è tradizionalmente portatrice, permettono una migliore interpretazione della comunicazione sociale.
2) Non esiste un rapporto immediato tra la teologia della comunicazione e le pratiche della comunicazione, siano esse ecclesiali o sociali. Occorre, dunque, un intermediario o, se si vuole, un terzo termine. Altrimenti, la teologia della comunicazione rischia di lasciarsi intrappolare dall’ideologia, dalla passione militante, dalla seduzione per la cultura mediatica.
Queste terzo termine ha una triplice natura. Innanzitutto dipende dal sapere storico, sociologico, psicologico, estetico, ossia da tutto ciò che si definisce come ‘scienze della comunicazione’. Inoltre, è costituito dalla riflessione etica che esamina le pratiche secondo i valori ritenuti più importanti e decisivi (Etica della comunicazione). Infine, si basa sulla riflessione filosofica (Filosofia della comunicazione) e sulla capacità di distacco e di discernimento delle condizioni di possibilità che essa permette. La teologia della comunicazione ha bisogno di prestare ascolto alle altre forme di conoscenza, di beneficiare del loro apporto. Non è sano pensare che essa possa fare a meno del confronto con logiche diverse dalla sua.
3) L’obiettivo della teologia della comunicazione non è di esprimere con un linguaggio religioso ciò che avviene tra i gruppi o tra le persone, ma di ricollegare le pratiche comunicative al mistero della fede religiosa che essa afferma, di misurare cioè il grado di coerenza esistente tra queste pratiche e il mistero della fede e, data questa coerenza, di esprimere la portata spirituale dell’esperienza umana.
All’occorrenza, il Vangelo può servire come punto di riferimento in quanto considerato dai cristiani come la manifestazione autorizzata del divino nell’umano. Ma il discernimento evangelico non si limita a stabilire un’interpretazione etica formulata da un punto di vista religioso. Esso va ben oltre, fino a comprendere l’aspetto spirituale dei comportamenti presi in considerazione.
D’altra parte, il legame tra le pratiche comunicative e il mistero della fede non può essere irrigidito in un sistema. La comunicazione tra gli esseri umani, che richiama e instaura il dono di Dio, assume spesso forme e varianti diverse nella libertà dello Spirito. Allo stesso modo, il senso spirituale della comunicazione non potrà mai esprimere la totalità del possibile. Non è che una figura parziale di ciò che è potenzialmente disponibile nella nostra storia.

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Note

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