Camera chiara

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Autore: Franco Lever
Il termine italiano, come anche il suo equivalente latino camera lucida usato in ambiente anglosassone, è un calco dell’espressione camera oscura. Questo gioco linguistico è fondato sull’analogia esistente tra due tecniche utilizzate per ‘copiare’ in modo diretto la realtà: ambedue lo consentono, ma con la c.c. si opera in piena luce.
Lo scienziato inglese W. H. Wollaston (condusse ricerche in chimica, in fisica, in ottica) nel 1806 ottenne il brevetto per questo strumento da lui chiamato camera lucida; l’anno successivo ne pubblicò il disegno e ne chiarì il funzionamento. Consiste essenzialmente in un prisma di cristallo a doppia riflessione, perforato in modo opportuno e montato su un braccio che lo tiene all’altezza dell’occhio del disegnatore. Guardando attraverso il piccolo foro si vedono due immagini, una perfettamente sovrapposta all’altra: la scena che si ha davanti (se ne vede l’immagine riflessa dal cristallo) e il foglio di carta appoggiato sul piano di lavoro (visto direttamente attraverso il forellino). In queste condizioni, chiunque, dotato di un po’ di calma e abilità, riesce a fare una copia perfetta di un paesaggio, perché basta che segua le linee dell’immagine ‘proiettata’ sul foglio di lavoro (in realtà è nell’occhio dell’operatore che si sovrappongono le due immagini).
Tutto questo può apparire oggi poco più che una curiosità. In realtà è un fatto importante, perché, assieme ad altri avvenimenti, ci aiuta a capire come è nata la fotografia. L’interesse suscitato a suo tempo dalla c.c., così come il moltiplicarsi delle ricerche per migliorare le prestazioni della camera oscura e quelle del processo litografico (Litografia), evidenziano che – nei primi decenni del 1800 – il desiderio di mettere a punto un sistema che producesse automaticamente immagini della realtà era diventato una vera ossessione per molti, artisti e non. La fotografia non è nata per caso, ma è stato un traguardo cercato da molti: lo scopo iniziale di Niepce era quello di ottenere lastre litografiche ‘perfette’, senza dover copiare a mano il soggetto; Daguerre lavorava con la camera oscura per creare scene sempre più ‘vere’ per il suo Diorama (lo spettacolo fatto di luci e fondali trasparenti, per cui era diventato famoso a Parigi); Talbot – per sua stessa ammissione – incominciò a pensare a una soluzione ‘chimica’ del problema il giorno in cui, "sulle belle rive del lago di Como", si stancò della sua poca abilità di usare la c.c.
In ogni caso l’idea di W. H. Wollaston è ancora valida, anche se non si usa più il suo strumento. Sia in fotografia che in cinematografia si ottengono effetti speciali con la semplice sovrapposizione – in fase di ripresa – di due immagini, quella della scena vera e propria e un’altra, riflessa da uno schermo semitrasparente posto davanti all’obiettivo. A livello televisivo gli stessi effetti si ottengono con la tecnica chiamata chromakey. In verità tutto questo sembra ormai diventato preistoria, di fronte alle possibilità di manipolazione di ogni tipo di immagine offerte dai software professionali per la grafica e per titolazioni ed effetti nel montaggio televisivo elettronico. (Macchina fotografica)

F. Lever

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Come citare questa voce
Lever Franco , Camera chiara, in Franco LEVER - Pier Cesare RIVOLTELLA - Adriano ZANACCHI (edd.), La comunicazione. Dizionario di scienze e tecniche, www.lacomunicazione.it (19/03/2024).
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